I destini incrociati di Umberto e Silvio

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Il Bossi di oggi non ha più la forza politica e forse anche fisica per sottrarsi all’abbraccio letale di Berlusconi. Bossi; non la Lega. Le due cose per la prima volta non coincidono più; anche se oggi la scenografia del sacro prato tenterà  di dimostrare il contrario. Questo non significa che la Lega resterà  sempre fedele all’alleanza con il Pdl. Ma difficilmente sarà  Bossi a decidere in piena autonomia lo strappo. Perché il Senatur sa che il suo destino politico è legato al Cavaliere; e sa che difficilmente potrà  sopravvivergli. Attorno al rapporto tra i due sono nate leggende e dicerie, basate come ogni leggenda e diceria su un fondo di verità . Il patto segreto sottoscritto dal notaio. I megaconti delle cliniche svizzere. Il salvataggio di banche padane. Ma il momento in cui si è giocata davvero la partita è stato quello del dolore e della sofferenza. Dopo l’alleanza coatta del ’ 94, la rottura di Natale, gli anni del Berluskaiser e del «mafioso di Arcore» , la ricucitura del 2000, è stata la malattia di Bossi a stringere il nodo del suo patto con Berlusconi. Per un anno, l’Umberto fu condannato al silenzio. Il premier rimase vicino all’uomo e anche al leader. Dovette sacrificare Tremonti al subgoverno Fini-Follini-Casini (tutti e tre poi fatti fuori). Però quando i colonnelli leghisti si fecero avanti per trattare in prima persona con il Cavaliere, lui fu cortese con tutti ma riconobbe sempre come unico interlocutore il vecchio capo ferito; e non a caso, alla prima uscita pubblica dopo la lunga convalescenza, Bossi indicò il suo erede in quello che appariva allora un outsider assoluto, suo figlio Renzo. Il referendum di domenica scorsa ha certificato che la presa dei due capi sui partiti da loro fondati non è più assoluta. Se personaggi miracolati da Berlusconi, come Cappellacci inventato dal nulla governatore della Sardegna o la Polverini trascinata alla vittoria nonostante la sparizione della lista Pdl, hanno disatteso le sue indicazioni, lo stesso è accaduto nella Lega, a cominciare dal Veneto. Non soltanto Zaia ha votato quattro sì. I congressi provinciali di Verona, di Vicenza e del «Veneto orientale» (provincia dell’immaginario leghista) hanno visto la sconfitta degli uomini di Bossi e la vittoria degli uomini di Tosi e di Maroni; mentre a Padova si è rinviato tutto per evitare il bis. Proprio Maroni, l’eterno delfino che nel ’ 94 fu l’ultimo a seguire il capo nella rottura con Berlusconi— «sono nato con la Lega, morirò con la Lega» —, ora è impaziente di rompere; e sarà  lui con ogni probabilità  a gestire la stagione post berlusconiana e lo sbarco della Lega al Sud. Oggi il Carroccio appare rattrappito su se stesso. Appesantito dalla lettura burocratica di una fase che si è messa improvvisamente in moto. Avvitato nella battaglia di puntiglio per i ministeri al Nord; come se l’artigianato lombardo o l’industria veneta traessero giovamento da qualche centinaia di posti pubblici in più. E il tramonto di Bossi non è meno evidente dell’eclissi di Berlusconi: un leader— e ministro — che da mesi risponde alle domande dei giornalisti con una pernacchia, il dito medio alzato, il pollice verso e altri segni di cui i miliziani forniscono poi in serata l’interpretazione autentica. Oggi a Pontida il leone tornerà  a farsi sentire, e sarà  accolto con l’affetto di sempre. Ma sarebbe troppo chiedergli di essere ancora lui il demiurgo della storia italiana, com’è accaduto in tutte le elezioni degli ultimi vent’anni, dal crollo democristiano del ’ 92 alla vittoria dell’Ulivo propiziata dalla sua corsa solitaria. In questo convulso finale di stagione, è data la possibilità  pure che il barbaro in canottiera esca di scena abbracciato all’uomo che tutti gli chiedono di abbattere.


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