Storia di Saartjie martire ottentotta

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Una storia vera e crudele, vecchia di 200 anni, quella di Saartjie, ragazza nera di una tribù sudafricana, che un padrone sfruttatore bianco portò a Londra nel 1810, per mostrarla nelle fiere come un fenomeno, una creatura selvaggia, in gabbia e alla catena, comandata con la frusta. Se ne serve il regista francotunisino Abdellatif Kechiche, autore del superpremiato Cous-cous (anche alla mostra di Venezia del 2007), per spiegarci quanto possa essere disumano lo sguardo di diffidenza, rifiuto, paura, con cui vediamo l’altro da noi, il diverso, lo sconosciuto. Allora come adesso. 

Venere nera (139 minuti) è un film pieno di collera, talora angoscioso, molto bello, da cui si esce turbati, feriti. Sul grosso corpo di Saartjie dalle natiche esagerate, chiuso in una tuta aderente come se fosse nuda, si avventano lo sguardo ignorante e spaventato del popolino londinese dei tempi di Giorgio III, poi quello volgare e lascivo dei nuovi ricchi parigini nei mesi di transizione tra la caduta di Napoleone e l’ascesa di Luigi XVIII. Ma sono i pensosi, rigidi rappresentanti della scienza a posare su di lei, essere dalla pelle scura, lo sguardo più pornografico e violento. Eccola nuda se non per un perizoma, tra gli eleganti allievi di George Couvier, celebre naturalista dell’epoca. Ogni sua parte viene scrutata, misurata, nessuno le guarda il bel viso umiliato e sofferente: quello che la scienza vuole da lei è poter confermare che gli africani sono esseri inferiori, più vicini all’orango che all’uomo, per poterne giustificare l’oppressione e lo sfruttamento. Couvier vuole soprattutto vedere se davvero quella creatura cui è necessario negare l’umanità , è fornita di genitali giganteschi, detti “il grembiule ottentotto”. Ma quella muta statua nera si rifiuta di togliersi il perizoma, alla rabbiosa aggressività  del presuntuoso studioso bianco oppone la dignitosa fermezza del suo no.
La schiavitù era stata abolita in Inghilterra nel 1807, in Francia era stata ripristinata nel 1802: ma Saartjie non era una schiava, nel senso che era consenziente a recitare a teatro o nei salotti la parte della creatura selvaggia, tanto che dichiarò la sua libertà  di scelta davanti ai magistrati inglesi e alla società  antischiavista. Ma la disperazione era nella sua perenne condizione d’inferiore, di creatura subumana, senz’anima che affogava la sua solitudine nell’alcol: quando in un salotto, cavalcata come un animale, il suo viso si riempirà  di lacrime, rovinando il gioco, il padrone la farà  finire in un bordello. Morta forse di tisi a 25 anni, finalmente la scienza poté impossessarsi del suo cervello, dei suoi genitali, delle sue natiche, del suo scheletro, esposti al Museo dell’Uomo di Parigi sino al 1974. Nel 2002 il Sudafrica ha preteso la restituzione dei resti di questa martire nera.
Gli attori a noi sconosciuti, sono tutti eccezionali, dall’esordiente naticona Yahima Torrés (Saartjie), cubana di origine africana, al gelido Franà§ois Marthouret, lo scienziato razzista.


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