Siria, i carri armati nella città  dei ribelli

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GERUSALEMME – Si combatte casa per casa nelle strade di Jisr al Shogur, la città  330 chilometri a nord di Damasco, sottoposta da venerdì scorso alla morsa della repressione del regime siriano. L’esercito, dispiegato in forze per riprendere il controllo della città  ribelle, appoggiato da carri armati e elicotteri è entrato ieri nel centro cittadino. Jisr è una “città  fantasma”, i suoi oltre cinquantamila abitanti sono fuggiti verso il confine con la Turchia e adesso insieme a altre decine di migliaia premono sulla frontiera. Per arrivare lì hanno passato le maglie dell’esercito siriano che impedisce la fuga dei civili dai combattimenti, dalle città  incendiate, dalle fattorie bruciate per rappresaglia. Settemila in due giorni hanno passato la linea del confine accolti dalla Croce rossa che ha allestito un primo campo profughi in territorio turco e ne ha altri due in montaggio. C’è una crisi umanitaria alle porte, crisi che secondo la Casa Bianca è deliberatamente provocata dal regime siriano. Regime per nulla intimidito né dalle sanzioni né dal gelo della comunità  internazionale, soltanto l’Iran è rimasto ancora al fianco di Bashar Assad e del Baath, il partito-Stato del presidente.
A Jisr, abbandonata dai cittadini, tentano di sbarrare la strada ai tank gruppi di civili che si sono armati assaltando alcune caserme ma anche interi reparti dell’esercito – che in Siria è di coscritti – e della polizia locale. Due ponti sono stati minati per rallentare l’ingresso dei carri armati in città  e solo gente con una preparazione militare sa farlo. La retorica del regime, attraverso la tv di Stato, continua a parlare di operazioni contro “bande di armati” ma nella città  ci sarebbe stato un vero e proprio ammutinamento, specie dopo che si è diffusa la notizia che i 123 agenti morti martedì scorso non sono caduti in un agguato dei ribelli ma sarebbero stati uccisi perché si rifiutavano di sparare sulla folla. Nell’esercito e nella polizia ci sono molte diserzioni, come testimoniano i profughi arrivati in Turchia, fra loro sono in molti quelli che indossavano la divisa fino a qualche giorno fa. In un ultimo spregiudicato gesto per cercare di cercare di restare in sella il regime sta iniziando a armare le famiglie alawite. La comunità  alawita, di cui fa parte il presidente e la sua cerchia, è minoritaria in Siria – solo il 10% della popolazione ma è un pilastro del regime e del Baath.
La crisi siriana, entrata nel terzo mese, ha da tempo messo in allarme il governo di Ankara. Il premier turco Erdogan, ha dato il semaforo verde per un’operazione militare e creare una “safety area” a cavallo dei due confini per fronteggiare l’emergenza umanitaria. Ma prudentemente aspetta che la comunità  internazionale dia il suo parere favorevole. La Casa Bianca che ieri è tornata a accusare la Siria di avere causato una «crisi umanitaria» ha chiesto a Damasco a permettere l’accesso di aiuti sanitari alla popolazione. Appello a cui ieri si è unita anche l’Italia con una nota di Palazzo Chigi nella quale si chiede «l’accesso immediato e illimitato alla Croce Rossa nella regione per prendersi cura dei feriti, dei prigionieri e dei profughi, svolgendo così la necessaria opera di assistenza umanitaria». Anche l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata della situazione umanitaria in Siria» e ha «deplorato il crescente e brutale uso della forza contri i manifestanti».
Continua anche il pressing all’Onu. Ieri il ministro degli Esteri britannico, William Hague, e il collega tedesco Guido Westerwelle hanno sollecitato il Consiglio di sicurezza dell’Onu a prendere una posizione chiara e rapida sulla Siria, con una risoluzione che condanni la repressione. Al Palazzo di Vetro è allo studio una bozza di risoluzione presentata da Gran Bretagna e sostenuta da Francia, Germania e Portogallo, contrarie Russia e Cina che dispongono del veto.

 


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