Città  e decrescita

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Questi tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società  della crescita. La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città  e del suo rapporto con la natura.

Il progetto urbano è necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne degli urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità . La città  decrescente dovrebbe essere una città  con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. In un primo tempo, la città  decrescente, potrebbe essere la cità  attuale dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità , le auto e la grande distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione publica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una riconversione sarà  necessaria ma anche una certa diindustrializzazione. In sintesi, la città  decrescente, primo passo verso una società  di abbondanza frugale, preserverà  l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà  a ciascuno un accesso più democratico all’economia, ridurrà  la disoccupazione, rafforzerà  la partecipazione [e dunque l’integrazione] e anche la solidarietà , fortificherà  la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà  e alla diminuzione dello stress.

Il disastro urbano della società  della crescita

Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti. Abbiamo una quantità  di architetti e urbanisti di ottima qualità  [compresi quelli del campo dell’abitare ecologico] ma questo non impedisce il caos urbano e paesaggistico attuale nel quale il mondo è rinchiuso. Il problema è che questa architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nel’insieme. Fallisce «a fare città » e sopratutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, le mitage du paysage [tarmatizzazione del paessaggio], la cementificazione del territorrio, la crescita dello squallore del quadro della vita e la distruzione del’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi archetetti e urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porrvi rimedio. Siamo di fronte a una forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è stato costatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza. «La cosa più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è l’uso della terra… Noi assistiamo alla fine di un ordine delle cose che prefigura forse un’altra cosa, che noi non connosciamo ancora. E, senza dubbio questa era inevitabile. Ma nell’immediato, la qualità  è emarginata e siamo di fronte a un disastro». Noi viviamo ancora nella città  produttivista, pensata e strutturata in funzione del’automobile sotto forme che pretendono di essere razionali [basta pensare alla città  radiosa di Le Corbusier] con le sue segregazionì degli spazi, sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali senza vita.

Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città  in tempo di pace con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estenzione delle zone residenziali, l’emergere dei gratttacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la proliferazione dei non-luoghi [stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.]. L’asfissia del traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla «super» o «iper» modernità  [parola che trovo più giusta di «post»-modernità ]. Questo è il trionfo della brutezza.

Per poter abozzare ciò che potrebbe essere l’urbanismo e l’architettura in una sociétà  della decrescita, bisogna capire prima, che cos’è la società  della decrescita e le suoi implicazioni architetetoniche e urbanistiche, poi si potrà  precisare a che cosa somiglierebbere la città  decrescente.

Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane

Che cosa è la decrescita? La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità  di abbandonare il progetto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si può definire la società  di crescita come una società  dominata da una economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della Crescita [con la «C» maiuscola] non distrugge soltanto la città , ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Questo è l’esplosione del’urbano, secondo la sociologa Tiziana Villani. Si tratta di un processo di artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il mondo meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nanetecnologie, la clonazione, l’allevamento industriale dei pesci, ecc. Ne sono una illustrazione. L’esito finale sarebbe il cyberman, l’uomo artificiale. Ora, il resultato più visibile è la transformazione del mondo reale, del mondo nel quale siamo condannati a vivere, in discarica o pattumeria.

Il faillimento di Duba௠e della sua torre di ottocento metri inabitata, constituisce un simbolo del faillimento del sogno americano e del suo urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà  probabilmente mai costruito. La citta produttivista appartiene al passato, ma la distruzione del mondo si prosegue.

Ovviamente il fine della società  della decrescita non è un capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita fa cadere le nostre società  nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità  della vita. Si può ben immaginare quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così come non c’è niente di peggio che una società  fondata sul lavoro senza lavoro, niente è peggio di una società  di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente parlando, più una a-crescita [come si parla di a-teismo] che una de-crescita. Si tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione: quella dell’economia.

Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società  autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto «R»: rivalutare, ridifinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Non si tratta di un programma, siamo al livello di concezione. Il progetto della società  della decrescita si articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto «R». Si può dire delle otto «R» che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più «strategico» delle altre: la rivalutazione, perché dà  origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti gli comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone. Il problema della città  e del territorio ormai distrutti e tutto da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale. Il disastro urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e paesagistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società  di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia.

La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità . Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Si tratta di Riterritorializzare [Alberto Magnaghi], ritrovare un sito e ri-abitarlo.

Tuttavia, l’architettura ecoresponsabile o l’habitat bioclimatico non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. La «città  sostenibile» promossa dalla Carta d’Aalborg [1994] è più una forma di modernizzazione ecologica del capitalismo [greenwashing] che un vero rimedio al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri – quartiere Vauban a Friburgo [Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000, in Olanda] e di Bedzed [Beddington zero energy development] nella città  di Sutton a sud di Londra – sono alla fine delle isole di sostenibilità  dentro un’mare di inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo scacco clamroso delle «ecocittà  » cinesi sono sintomatiche. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare come Chongming, sono nel’impasse. L’ecocittà  di Dongtan à  Chongming di fronte a Shanghai è stata promossa con forza dal 2006-2008 per fare vetrina ecologica all’Esposizione Universale. Il padrino del progetto è stato eliminato nel 2008 per corruzione dopo di che il progetto, mal conà§epito, è stato abandonnato. Gli altri progetti [Huangbaiyu e Tianjin] non vanno bene. L’economia ha vinto sull’ecologia. In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di cambiare il rapporto con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città  giardino, città  totale, reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre city [Wright], città  compatta, città  distesa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città  e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società  della crescita.

Il funzionalismo formalizato nella Carta di Athene da Le Corbusier [1943] che pretendeva di lottare contro il «disordine urbano» ha generato finalamente un disordine più grande al prezzo di una esplosione dell’impronta ecologica delle città . Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis. Questo sembra essere il destino de l’iperpolis virtuale, constituita dalla finanza e dai media globalizzati.

La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città  e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne degli urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità . Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società  di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.

A che cosa somigliera la città  decrescente?

La città  decrescente dovrebbe essere una città  con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. Piutosto di sognare la construzione di città  nuove, bisognerà  imparare ad abitare le città  in modo diverso, questo al Nord come al Sud. La città  consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta massiciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale.

«Pourqu’un mètre carré de surface urbaine fonctionne dans les villes espagnoles, il faut 60 mètre carrés d’espace rural, de sol agricole, foràªt ou prairie, pour permettre aux troupeaux de produire les biens et services réclamés par les grandes villes. L’empreinte écologique urbaine n’arrète pas de croà®tre. Il y a 50 ans, les villes n’avaient besoin pour chaque màªtre carré que de 25 m2 de campagne. Si on fait une projection, à  ce train là , en 2050, il faudra 500 m2 de sol rural par m2 urbanisé. L’empreinte écologique du citadin espagnol représente 4 fois l’empreinte soutenable [6ha 395/1,8]».

Più la citta è estesa, «funzionale» [Le Corbusier], più questa impronta è forte. Quello che non si vuole dire che bisogna verticalizzare le città . Le torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità . Bisogna sicuramente reinventare una città  più «compatta». L’habitat individuale, isolato, anche pensato ecologicamente bene, è una eresia urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perchè ogni anno spariscono ettari di terre agricole sotto l’asfalto e il cemento. La costruzione ragruppata e l’alloggiamento collettivo dimostrano una efficacia energetica più alta.

Invece delle megalopoli attuali, bisogna imaginare una città  ecologica, fatta di villagi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano una energia rinovabile. Nella città  decrescente, gli abitanti ritroverano cosi il piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo.

Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbani. La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forta capacità  di autosostenibilità , mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne [o esternalità  negative, cioè i danni provocati dall’attività  di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività ]. Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città  di città , città  di municipi, municipio di municipi o forse una città  di villaggi, in breve una rete policentrica o moltipolare. Si potrebbe considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Murray Bookchin. «La città , che da secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si scambia’ – scrive Yona Friedman – diventerà  un’arca di Noè destinata ad assicurare la sopravivvenza della specie nonostante il diluvio. Una grande autonomia, una grande autarchia saranno dunque necessarie». Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà  stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà  anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società  decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile.

«Saremo noi un giorno capaci – si chiede Christophe Laurens, architetto e paesaggista – abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi, gli incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d’attrazione, tutto ciò quello che l’architetto olandese Rem Koolhaas chiama i junkspace?». La risposta viene forse da Yona Friedman: «Per trasformare il male in bene – dice – dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo subito». Si tratta di abitare diversamente la stessa città . Pensare al Paris [Parigi/scommessa] della decrescita.

In un primo tempo, la città  decrescente, potrebbe essere la cità  attuale dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità , le auto e la grande distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione publica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una riconversione sarà  necessaria ma anche una certa disindustrialisazione. Il risultato di questa disindustrializzazione realizzata, grazie a degli attrezzi soffisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, essa è comunque importante.

Nel suo bel libro «Manifesto per la félicita. Come passare dalla società  del ben-avere a quella del ben-essere» [Donzelli, 2010], Stefano Bartolini presenta così la città  «relazionale» che corrisponde quasi-esattamente al progetto della decrescita: «La città  relazionale è uno degli aspetti cruciali della mia proposta di assegnare ai bambini una priorità  ben maggiore di quella attuale perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e mobilità  nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono disporre di spazi pedonali di qualità  vicino a casa e della possibilità  di arrivarci da soli. Gli elementi chiave di una città  relazionale sono: l’auto privato deve essere drasticamente limitata come misura strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti publici; la densità  di popolazione deve essere alta; ci devono essere molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità , centri sportivi ecc.; le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un fiume, un ruscello, un canale; devono attraversare la città  in modo da formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile marciapiedi spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà  publica deveno circondare la città , per costruirvi parchi e case16».

E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà . Due milliardi di persone vivono nei baraccopoli [bidonvilles] o delle favelas autoconstruite e non accederanno mai alla città  produttivista. La visione di Yona Friedman dell’architettura e dell’urbanismo di sopravivvanza è certamente più realista per il Sud, e inoltre in coerenza con la città  decrescente al Nord. La città  povera è fatta di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage – dice Friedman – è la società  anarchica dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica o politica; questo tipo di società  si è costituito semplicemente perché l’esperienza ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità  di sopravvivenza».

Finalmente, «La risposta dell’architettura di sopravivvenza ai problemi correnti sarebbe dunque: costuire meno, ma imparare ad abitare in altro modo; sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i nostri criteri di ‘commestibilità »; vivere nelle città  in cui abitiamo, ma organizzarci con minori spostamenti e vivere all’interno del nostro villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati da noi perché lontani».

In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita. Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità  di fare dei passi avanti nella politica a questo livello. Si può menzionare: la Rete del nuovo municipio, la rete delle città  lenti [Slow cities], le città  in transizione [Transition towns], le Città  post carbone, le numerose esperienze di città  virtuose come l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri19, le esperienze di Barjac20 e di Correns, tutte collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di acquisto solidale, Amap ecc]. `

Il movimento delle città  in transizione [Transition towns] è forse la forma di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società  della decrescita. Queste città  secondo la carta della rete ricercano l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in prestito dalla fisica, passendo attraverso l’ecologia scientifica, può essere definito come la capacità  di un’ecosistema di resistere ai cambiamenti della sua ambiente21. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno affrontare la fine del petrolio, l‘aumento della temperatura, e tutte le catastrofe prevedibili? La risposta dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente di migliorare le performanze in un’campo, rende più fragile la resilienza dell’insieme. La diversità , al contrario, rinforza la resistanza e le capacità  di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la policultura, l’agricultura di prossimità , piccole unità  artigianali, moltiplicare le sorgenti di energia rinovabile, tutto questo rinforza di consequenza la resilienza.

Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti

Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L’architetto esteta, creatore di forme, credo sia oggi quasi anacronistico».
Yona Friedman: «Dopo tutto, stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere la Festa».

In sintesi. La città  decrescente, primo passo verso una società  di abbondanza frugale, preserverà  l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà  a ciascuno un accesso più democratico all’economia, ridurrà  la disoccupazione, rafforzerà  la partecipazione [e dunque l’integrazione] e anche la solidarietà , fortificherà  la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà  e alla diminuzione dello stress. L’impatto sul paesaggio, anche se non fosse l’oggetto di una politica specifica, sarà  necessariamente positivo.

[Questo saggio è il testo della relazione di Serge Latouche al meeting internazionale, il 19 e 20 maggio a Roma, dal titolo «The architecture of well tempered environment – Un’armonia di strumenti integrati», promosso dall’Unione internazionale degli architetti e dall’Union internationale des architectes, architecture and renewable energy sources].


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