L’Istat e gli indignados

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Nei giorni scorsi è stata rivolta grande attenzione ai dati del rapporto Istat, a quelli del Censis presentati alla commissione lavoro della camera, e alla rilevazione dell’osservatorio Demos-Coop sul “capitale sociale” degli italiani: la stampa, la televisione e commenti di esperti vari ci hanno sommersi con cifre e annunci pesantissimi. “Giovani in fuga all’estero”, “Due milioni di giovani in meno”, “Giovani in estinzione” (questi titoli li traggo da Repubblica e dal Corriere della sera, ma letture di questo tipo sono state enfatizzate in tutti i media). Dunque non solo, come ripetutamente ci viene detto, si tratta di “giovani” sfiduciati e tagliati fuori, senza prospettive, senza capacità  di reagire: questa volta le parole sono ancora più drastiche. Sono “giovani persi”; addirittura, si dice in un titolo a grosse lettere, “a rischio di estinzione”.

Dati e analisi di cui tenere conto, certo. Ma su come ci vengono presentati vorrei fare alcune riflessioni. Numeri per metterci a confronto con altri paesi europei sono stati forniti, ma non ci sono richiami alle vicende attuali in particolare in Spagna e in Grecia, paesi in gravissime difficoltà  ma che mostrano anche forti segnali di partecipazione e mobilitazione. Non che il fare riferimento ad altri contesti possa aiutare a risolvere i nostri problemi. Ma il punto è che i numeri vengono trattati come se si trattasse di qualcosa di “astratto”, senza riferimento al contesto che oggi è segnato da processi (fin qui imprevedibili) di presa di consapevolezza, di iniziative collettive. Sono vicende che – ovviamente – avranno sviluppi in dimensioni, appunto, non “nazionali”. Non ha senso guardare a “noi” come a un caso a parte, isolati dal contesto nel quale siamo collocati. Dobbiamo, nel male e nel bene, imparare a pensare europeo. Di fronte ai problemi e ai processi di trasformazione in corso sarebbe utile che si arrivasse (utilizzando tutte le occasioni: anche quelle difficili, come questa) appunto a questo modo di pensare.

E c’è un punto che non è chiarito, nelle cifre che ci vengono presentate. Si tiene conto, o invece vengono ignorati, i numeri relativi alle “seconde generazioni”, alla presenza di giovani immigrati? Sarebbe bene precisarlo, nelle proiezioni- demografiche, economiche, sociologiche- e non ragionare con dati “parziali” (che non comprendono, come spesso si tende a fare, gli “immigrati”). Emergerebbero letture forse meno preoccupanti, oppure un quadro più complicato da affrontare, possibili problemi. Ma è bene sapere di che cosa si sta parlando. Succede che si mettano in circolazione statistiche incomplete, inesatte. Dobbiamo cercare di leggere processi e trend in prospettive articolate e consapevoli, e diffidare di messaggi semplificati.

Riprendo qui due riflessioni formulate da Alain Desrosières, uno studioso francese che definisco “europeo” per i ruoli che riveste e per la sua autorevolezza. Appunto riferendosi a come ci vengono presentati i dati, segnala che esiste una politica dei numeri: “procedure codificate” e “convenzioni condivise” (anche, sottolinea, “negoziazioni”). Su queste basi si costruiscono le analisi e anche le proposte messe in circolo nel discorso pubblico. E dice ancora: c’è un “effetto di retroazione” dei numeri, ci sono ricadute (anche per le conseguenze che hanno a livello dei comportamenti individuali: calcoliamo e prendiamo decisioni, nelle scelte del vivere di ogni giorno, facendo riferimento alle informazioni che ci raggiungono: dati statistici, elaborazioni ed interpretazioni). Le cifre, le percentuali (e i titoli sparati in prima pagina), pesano. Una segnalazione che viene da un autorevole studioso dei “numeri”.

E infine una domanda. Nelle informazioni che ci sono state presentate, nessun riferimento alla fase che stiamo vivendo: la “rivoluzione non violenta”, così è stato detto, degli indignados in Spagna, manifestazioni in molti contesti europei (e anche segnali di cambiamento nel quadro italiano); e i drammatici processi che segnano tante zone a noi vicine nello spazio mediterraneo. Sono questioni “altre”, o davanti a noi abbiano un’ Europa in profonda trasformazione? E tutto questo,ovvio, riguarda soprattutto i giovani: sono davvero “in estinzione”?


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