Somaliland, i primi vent’anni dello stato che non c’è
Ad Hargeisa, la sera del 18 maggio, a celebrare i primi vent’anni dello stato che c’è ma non si vede, perché non è riportato sulle cartine, c’era l’alta burocrazia nazionale, leader tribali, uomini il meweyen e donne in abaya e un presidente che, tra una sfilata di cavalli e una di militari dei diversi corpi, tra uno spettacolo teatrale e un’esibizione di circensi, annunciava davanti ai media nazionali l’intenzione di concedere il perdono a 750 prigionieri. Un esempio di sicurezza e maturità politica sulle quali nessuno avrebbe scommesso 20 anni fa, quando il Somaliland si staccò dalla Somalia e sembrava destinato a diventare l’ennesimo stato fallito. E invece, a dispetto di uno scetticismo generale, è stato protagonista di un consolidamento politico ed economico sorprendente. Il simbolo della rinascita è la capitale Hargeisa. Nel ’91, dopo un decennio di ribellioni e di tentativi di secessione represse nel sangue dal regime di Siad Barre, era ridotta a un cumulo di macerie. Oggi mostra larghi viali, palazzi moderni e con i suoi circa 600 mila abitanti oggi è un centro vitale. “Un’economia vibrante, un posto eccitante da visitare e soprattutto sicuro”, la descrive Mark Bradbury, analista tra i massimi conoscitori del Corno d’Africa, autore di Becoming Somaliland. Ma ci sono anche l’importante porto di Berbera, sul Golfo di Aden e Burco, che con la capitale formano il “triangolo del commercio”, forte di una posizione geografica molto favorevole, a ridosso di un tratto di oceano dall’enorme valore strategico.
Un piccolo miracolo la cui portata diventa ancora più chiara se si guarda al caos in cui è sprofondata la vicina Somalia. Un confronto tra i due Paesi, oltre che essere impietoso per quest’ultima, ricorda vagamente le pubblicità dei detersivi che mostrano cosa accade a capi lavati con prodotti diversi. L’altra cosa sorprendente è che, se il fallimento somalo è avvenuto malgrado il coinvolgimento diretto della comunità internazionale e lo stanziamento di fondi ingenti, il Somaliland è rinato nell’indifferenza generale, perché il mancato riconoscimento ufficiale ha comportato la non inclusione nei programmi di sviluppo della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale. Nemmeno i Paesi africani hanno avuto troppa fretta di riconoscere uno stato la cui nascita è stata interpretata come una violazione della regola fondamentale per cui i confini coloniali ereditati non vanno discussi, dimenticando che il Somaliland, ex protettorato britannico, godette di una indipendenza breve ma riconosciuta da 35 Paesi, e che quindi la secessione dalla Somalia rappresenta il ripristino di un ordine che è semmai stato modificato proprio dall’unione con le terre somale del sud, prima imposta dall’occupazione italiana, poi attraverso una scelta politica calata dall’alto, nel 1960, mai digerita da buona parte dei cittadini.
Il limbo giuridico in cui vive da 20 anni, ha costretto il piccolo stato a contare solamente sulle sue forze e a fare di necessità virtù. Il motore che ha messo in moto la ripartenza sono le rimesse della diaspora (Qurbajoog), che sono arrivate in quasi tutte le aree del Paese e per tutti i clan, evitando che si creasse un monopolio nell’accesso alle risorse e una leadership rapace. Parallelamente, un costante processo di pacificazione interna, portato avanti attraverso numerose conferenze e accordi interclanici, grazie all’autorità e alla mediazione dei leader tradizionali, Gurtii, hanno permesso al Somaliland di resistere alle esplosioni di conflitti di natura clanica della metà degli anni Novanta e di affrontare pacificamente tre elezioni presidenziali (l’ultima nel giugno del 2010), diverse tornate elettorali locali e nazionali e di passare attraverso un referendum che nel 2001 sancì il passaggio ad un multipartitismo reale. Il governo è riuscito a ricostruire un esercito e una polizia, a creare un sistema doganale strutturato, una propria valuta, a distribuire passaporti ai cittadini e addirittura a mettere in piedi un’authority per il controllo dei conti.
Restano cortocircuiti come l’allocazione della spesa, il cui 60 per cento è destinato al comparto sicurezza, per tenere sotto controllo la costa a rischio pirateria e soprattutto per monitorare le milizie che sono attive nelle regioni di Sool e Sanaag, che segnano a est il problematico confine col Puntland, che reclama quei territori. Però la stabilità politica negli ultimi anni ha richiamato forti investimenti economici, e non solo da parte della diaspora. Da settimane, fonti governative parlano di trattative in corso con compagnie cinesi per la costruzione di una ferrovia tra il porto di Berbera e l’Etiopia e di una comunità internazionale che negli ultimi mesi ha dato segni tangibili (100 milioni di dollari dati a fondo perduto) verso il Somaliland. Fino ad oggi, il piccolo stato è andato avanti attraverso accordi bilaterali con pochi partner. Ma ora sembra avverarsi la profetica analisi dello storico inglese Ioan Lewis che, in A Modern History of the Somali, scrive: “Sembra che, nonostante la riluttanza a riconoscere ufficialmente la Repubblica del Somaliland, questa al momento sia l’unica opzione di stato somalo a disposizione”. Segnali sempre più chiari arrivano da Unione europea e Unione africana. Gli abitanti lo sentono e già pregustano la gioia provata in Kosovo, a Timor Est e, di recente, in Sud Sudan. D’altronde, qui sostengono di avere tutti i requisiti della statualità e di aspettare solo che il mondo se ne accorga.
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