Nel cuore di tenebra dell’economia emergente

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DANTEWADA (INDIA) – Un noto religioso e attivista sociale, Swami Agnivesh, un giorno di marzo si è avventurato tra le montagne del distretto di Dantewada, nell’India centrale, con un piccolo convoglio di mezzi carichi di abiti, coperte e generi di prima necessità . Obiettivo della spedizione erano gli abitanti di tre villaggi bruciati la settimana prima dai commandos di polizia, episodio che ha fatto scandalo perfino in una zona di conflitto strisciante come questa regione di foreste e miniere di ferro, roccaforte della rivolta armata maoista. Lo swami non è riuscito però a distribuire i suoi aiuti: è stato attaccato e malmenato da centinaia di «special police officers» (ausiliari di polizia) e miliziani della Salwa Judum, riferiscono giornalisti che lo seguivano, loro pure attaccati.
La Salwa Judum è uno dei prodotti più perversi del conflitto ormai cronicizzato tra queste montagne. In lingua locale significa «forza di pace», è stata descritta dalle autorità  come una milizia spontanea di «autodifesa» dei villaggi contro i maoisti: è ormai accertato però che è stata armata e addestrata dalle forze di sicurezza del Chhattisgarh.
La guerra sporca
Entrata in scena nel 2005, la Salwa Judum ha segnato un’escalation dello scontro tra lo stato e il Partito comunista-maoista (illegale). Miliziani armati di machete e armi rudimentali hanno lanciato raid nei villaggi dove era segnalata (o presunta) la presenza di maoisti; sono circolate notizie di violenze, intimidazioni, stupri, villaggi incendiati e abitanti in fuga. Centinaia di migliaia di persone sono andate a riempire i campi profughi («di riabilitazione») prossimi alle postazioni paramilitari; tra i giovanissimi sfollati sono stati reclutati altri miliziani. Nel momento peggiore, 644 villaggi erano stati distrutti e 350mila persone erano sfollate in 23 campi «di riabilitazione»: «Le forze di sicurezza hanno adottato la strategia di “svuotare l’acqua per prendere il pesce”, evacuare gli adivasi dalla foresta per condurre la guerra ai maoisti», mi dice l’avvocata Sudha Baradwaj, dirigente della People’s Union for Civil Liberties (Pucl), nota organizzazioni per i diritti civili.
Nel frattempo, nel 2009 le forze di sicurezza hanno lanciato un’offensiva militare in diversi stati, mobilitando circa 60mila uomini di vari corpi paramilitari. L’operazione «Green Hunt» doveva segnare l’affondo finale contro la guerriglia: invece è culminata in un disastro. Un anno fa, aprile 2010, lungo una strada neppure troppo remota del distretto di Dantewada, 76 paramilitari sono stati uccisi in un’imboscata. Una disfatta: «Quell’offensiva ha messo in evidenza le debolezze della risposta militare alla rivolta maoista», mi dice Ajay Sanhi, direttore del Institute for Conflict Management di New Delhi: «Da allora le forze di sicurezza sono sulla difensiva. Purtroppo manca una strategia politica che affronti le cause profonde del conflitto».
Dopo anni di denunce, indagini di organizzazioni per i diritti umani, petizioni, nel 2008 la Corte suprema indiana ha dichiarato illegale la Salwa Judum («lo stato non può armare civili per uccidere altri civili», hanno detto i magistrati). La milizia però non è scomparsa. Nel luglio scorso il governo centrale ha deciso di espandere l’uso degli «special police officers», o ausiliari di polizia. «In teoria sono solo ausiliari, ma sono armati», spiega Manish Kunjam, ex deputato del Partito comunista (legale e rapresentato in parlamento, il Cpi), «e ora che finalmente parte degli sfollati tornano ai villaggi, questi Spo sono là , forti del loro incarico e del loro fucile. Spadroneggiano con la scusa di combattere i naxaliti. E la polizia li usa».
La milizia irregolare dunque si è reincarnata. Lo conferma indirettamente il signor Sreenivasulu, commissioner della regione Bastar (una sorta di prefetto, sovrintende all’amministrazione civile della regione): la Salwa Judum, mi ha detto nel suo ufficio a Jagdalpur, in febbraio, «è necessaria per difendere dalle rappresaglie dei naxaliti gli abitanti dei villaggi che stanno con noi». Si mostra sorpreso quando cito la sentenza della Corte suprema: «Scioglierla? E’ una proposta. Sì, la Salwa Judum esiste ancora, e il governo l’aiuta pienamente per riabilitare gli sfollati». Armi? «Sì, gli sono state date armi per l’autodifesa. Voglio dire, agli ausiliari di polizia». La cronaca – i villaggi bruciati, l’aggressione alla missione umanitaria – lo conferma: la guerra sporca continua.
Il prefetto e il «buon selvaggio»
Negli anni, la «guerra ai maoisti» ha travolto attivisti sociali, gandhiani, avvocati e difensori dei diritti umani: negli ultimi due anni si contano un ashram distrutto, il suo fondatore Himanshu Kumar costretto a lasciare la regione, attivisti gandhiani arrestati con l’accusa di «fiancheggiare» il partito armato. Kartam Yoga, consigliere municipale di Bastar e primo firmatario della petizione alla Corte suprema contro la Salwa Judum, è in galera accusato di terrorismo. Un medico, Binayak Sen, presidente della People’s Union for Civil Liberties, è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di fiancheggiare i maoisti: contro la sua condanna si sono mobilitate personalità  democratiche e premi Nobel di tutto il mondo (ora è in libertà  condizionale, in attesa dell’appello). Nelle ultime settimane molti attivisti del Partito comunista (Cpi) sono finiti in carcere pure accusati di sostenere i maoisti.
Eppure anche il commissioner, che difende le milizie di stato, è convinto che la chiave per uscire dal conflitto è portare «sviluppo», infrastrutture e servizi pubblici, nelle zone rurali. E’ «un conflitto ideologico», mi dice: «La popolazione tribale è stata a lungo deprivata, sfruttata, mancano infrastrutture, l’analfabetismo è alto. E’ un problema sociale. La risposta è portare i tribali innocenti nel mainstream, farli parte dello sviluppo». Non è chiaro se con «tribali innocenti» intenda quelli che non stanno con i maoisti, o se alluda a un concetto più vago, il «buon selvaggio» che lo stato deve educare.
«Lo stato dice che è impossibile sviluppare le zone tribali perché ci sono i naxaliti. Ma prima non c’erano, ed erano ugualmente neglette», commenta un religioso di Jagdalpur – chiede di non rivelare la fede a cui appartiene, per non esporre i suoi correligionari. «E’ vero, per le forze di sicurezza le zone sotto il controllo dei maoisti sono off limits. Ma noi operatori sociali, medici, insegnanti, nei villaggi ci lavoriamo. Non abbiamo contatto diretto con i maoisti, ma sappiamo che sono là . Del resto, anche gli imprenditori forestali restano nella foresta: pagando i maoisti continuano a lavorare. Anche le miniere pagano la protezione».
A volte, dice son sorriso malizioso, «mi chiedo se il movimento naxalita non sia stato inventato per mantenere lo stato d’eccezione. Voglio dire che fa comodo a molti: a chi estrae materie prime dalla foresta senza controllo, il governo statale che ottiene finanziamenti, gli amministratori locali che non rendono conto a nessuno. Molti beneficiano della presenza naxalita».


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