Anno 2061, mari come deserti

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Ma se salmoni, tonni, merluzzi, ippoglossi, spada e sardine dovessero estinguersi, anche altri pesci che dipendono da loro sarebbero in pericolo. E con loro i mammiferi e gli uccelli marini che si nutrono di pesce. E poi gli insetti che a questi legano la loro esistenza. Lentamente, ma non troppo lentamente, l’intera vita del pianeta Terra potrebbe disfarsi. Poiché, è importante ricordare, «non ci sono mondi separati, ma viviamo in un solo mondo dove ogni cosa ha un impatto su tutte le altre» . I toni apocalittici non sono esattamente la cifra di Mark Kurlansky. Lo scrittore americano, che ci ha regalato capolavori come Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo e Sale. Una biografia, col mare. e i suoi abitanti ha avuto soprattutto un intenso rapporto d’amore. Sin da quando, studente al college, lavorò per alcune estati sui battelli del New England, guadagnando i soldi per pagarsi l’università . Un’esperienza che gli dato «grande ammirazione e rispetto per i pescatori, gente che lavora duro, rischia la vita e ha una mente molto indipendente» . Ma dopo il successo avuto nel 2006 con The Big Oyster, straordinaria storia di New York attraverso quella del mollusco che la creò e ne lanciò la fortuna, nei suoi ultimi libri Kurlansky ha optato per toni più preoccupati ed esortativi. Già  tre anni fa, in The last fish tale, aveva esplorato il destino degli oceani, lo spopolamento dei mari e il declino delle comunità  marinare che hanno fatto la storia e il mito delle coste atlantiche del Nordamerica e della Gran Bretagna. Ora Kurlansky torna sul tema con World without fish, appena uscito negli Stati Uniti per i tipi di Workman Publishing. Un libro per ragazzi «dai 9 anni in su» , come recita la quarta di copertina, scritto anche per dimostrare che lo scenario evocato in apertura è ancora evitabile: «I giovani sono quelli che vogliono veramente imparare — dice lo scrittore al telefono da New York—. Sta crescendo una generazione molto sensibile ai temi ambientali. Sanno che stanno per ereditare un pasticcio e non sono per nulla contenti» . Kurlansky non vuol passare per la Cassandra dei mari: «Forse non succederà  tra mezzo secolo, forse ci vorrà  molto di più. Ma il rischio è reale, se continueremo a pescare troppo, a inquinare gli oceani, a non far nulla per rallentare il surriscaldamento del clima» . Non è semplice assegnare colpe e responsabilità  per quanto sta accadendo. L’idea che i cattivi pescatori stiano depredando i mari non regge alla prova dei fatti. Dopotutto, sono loro quelli più immediatamente interessati alla salute degli oceani. L’overfishing, cioè l’eccesso di pesca, è piuttosto il risultato di molti fattori: «C’è quello che avviene dentro le 200 miglia marine dalle coste del Nordamerica e dell’Unione europea: lì la colpa è degli errori dei governi, i pescatori seguono le regole che vengono loro imposte. Fuori da quel limite c’è l’overfishing nelle acque dei Paesi del Terzo Mondo: lì abbiamo tutti responsabilità , europei e asiatici che mandiamo le navi a derubarli. Poi c’è anche l’eccesso di pesca dovuto all’atteggiamento dei Paesi emergenti, i quali non senza argomenti rivendicano il diritto a sviluppare un’industria ittica senza vincoli ambientali» . Eppure, non c’è un capo di governo, un ministro, un’agenzia internazionale disposti a negare l’emergenza: «Tutti sono d’accordo che non possiamo permetterci di rischiare l’estinzione di intere specie di pesci, ma trovare la giusta formula per procedere è complicato, impervio, poiché dovremmo prima stabilire quanto pesce sia rimasto, quanto se ne possa prendere e in che modo, visto che se si usano le famigerate reti a strascico non solo non si controlla la quantità  delle catture, ma il pesce è già  morto quando viene tirato in barca. La gestione delle riserve ittiche è scienza giovane e noi non abbiamo molto tempo per perfezionarla» . L’argomento che mangiamo troppo pesce è falso. Il punto, secondo Kurlansky, è che peschiamo nel modo sbagliato. L’altro corno del problema, un po’ più ingrato da riconoscere, è che il pesce «costa poco» . Il lettore non si stupisca. Soprattutto un lettore milanese, che magari ogni tanto passa davanti ai banchi delle pescherie-gioiellerie del centro: «Pescare in modo sostenibile— spiega lo scrittore — rende inevitabilmente il pesce più costoso: il solo modo di portare sul mercato pesce a basso costo è di pescare abusando del mare. Se accettiamo la visione ottimistica, che riusciremo a trovare una soluzione al problema dell’esaurimento delle specie di pesce nel mondo, il prezzo più alto sarà  per forza parte dell’equazione. Il che ovviamente pone la domanda: cosa mangeranno le persone più povere? Confesso di non avere una risposta intelligente» . Ogni capitolo di World without fish si apre con una citazione di Charles Darwin. Per Kurlansky, chiunque si occupi di problemi ambientali dovrebbe leggerlo. Anche se tutti lo conoscono per la teoria dell’evoluzione, «la sua lezione più importante è quella che noi chiamiamo biodiversità : per avere un ecosistema in salute abbiamo bisogno di un’ampia varietà  di specie. Il punto è che abbiamo alterato il modo di funzionare della natura. Non è possibile tornare indietro, ma occorre ricostruire un ordine naturale in grado di funzionare e perpetuarsi» . E questo significherà  anche cambiare il nostro stile di vita personale e le nostre abitudini di Paesi abbienti. Dovremo essere più responsabili nella scelta del pesce che compriamo. E anche smettere di depredare le riserve marine al largo dell’Africa e del Sudamerica. Educare i pescatori alla sostenibilità , anche mettendo al bando le tecnologie più invasive come le reti a strascico, come già  accade in alcune piccole aree in Europa e in America. Ridurre l’inquinamento dei mari. «Ma non è tanto e solo una questione di salvare gli oceani— spiega Kurlansky— quanto di salvare loro (i pesci, ndr) e il nostro rapporto con loro. L’acquacoltura non è una soluzione: non solo è un disastro sul piano ambientale, ma non salvaguarda il rapporto col mare. La diversità  sociale è altrettanto preziosa della biodiversità : occorrono molte culture perché una civiltà  fiorisca e quella del mare è fondamentale» .


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