Terra Futura: acqua, ambiente e democrazia “beni comuni” da continuare a curare

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Se è impossibile riassumere il ricchissimo programma culturale – che si è snodato fra seminari, dibattiti e convegni con esperti e testimoni dei diversi ambiti e i numerosi workshop e laboratori che hanno permesso ai visitatori di sperimentare progetti e percorsi, frutto di scelte e azioni di vita, di governo e di impresa – è però possibile soffermarci su alcuni dei “beni comuni” che sono stati al centro di questa ottava edizione della manifestazione.

Hanno innanzitutto “fatto notizia” i 40 milioni di persone che nel solo 2010 sono state costrette a fuggire non dalla guerra o dalla tortura, ma dal loro stesso ambiente diventato inospitale e invivibile a causa di cambiamenti climatici e desertificazione. Sono gli “ecoprofughi”, di cui anche quest’anno si è occupata Legambiente nel dossierProfughi ambientali: cambiamento climatico e migrazioni forzate”, presentato sabato mattina. “Non è più la guerra la principale causa di migrazione: gli ultimi dati disponibili per il raffronto, relativi al 2008, riferivano di 4,6 milioni di profughi a causa dei conflitti contro i 20 milioni di ecoprofughi nello stesso anno” – riporta il dossier.

Un fenomeno dai tratti inquietanti se si considera che, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, entro il 2050 si arriverà  a 200, forse addirittura a 250 milioni di rifugiati ambientali con una media di 6 milioni di persone all’anno. Ma secondo lo studio di Legambiente a pagare già  oggi le conseguenze di tsunami, desertificazione, alluvioni e eventi metereologici eccezionali sono i popoli del Sud del mondo dove ben l’80% non può permettersi di fuggire. La conferma arriva anche dallo UNDP secondo cui dei 262 milioni di persone colpite da disastri climatici tra il 2000 e il 2004 ben il 98% viveva in un paese in via di sviluppo.

“Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già  una drammatica realtà  in molti Paesi che pagano un prezzo alto in vittime e sfollati” – ha dichiarato Maurizio Gubbiotti, coordinatore della segreteria nazionale di Legambiente. “Non si può pensare di intervenire solo in modo emergenziale sugli eventi catastrofici, è necessario, invece, affrontare l’emergenza climatica e umanitaria, partendo da efficaci politiche di cooperazione internazionale”. Il problema dei profughi ambientali – ha spiegato Paolo Beccegato, responsabile area internazionale di Caritas Italiana – è causato dal fenomeno dei cambiamenti climatici, ma anche da quello dei crescenti conflitti ambientali. In qualche modo, perciò, tutta la questione va ricondotta alla capacità  di gestione e trasformazione non violenta dei conflitti”.

Di profughi e diritti mancati in Italia ha parlato Antonio Russo, responsabile area immigrazione ACLI, che ha definito il nostro Paese “impreparato ad affrontare una non-emergenza”. “Negli ultimi otto mesi – ha detto Russo – sono circa 38mila le persone arrivate in Italia, di cui 20mila sono ‘migranti economici’ provenienti dalla Tunisia e gli altri titolari di diritto alla protezione sussidiaria. Ricordo che un decreto flussi, che viene istituto annualmente, vale 150mila persone, perciò stiamo parlando di numeri esigui”. Oltre alla correlazione tra impatti ambientali e povertà , quello che emerge dal dossier di Legambiente è che a pagare le conseguenze dei danni provocati dai mutamenti climatici è in primo luogo il genere femminile. Le donne, infatti, sono le prime vittime dei disastri ambientali con un rapporto di 3 a 1 rispetto agli uomini.

E proprio le donne della Tunisia hanno animato il dibattito sulla “primavera araba”, il grande movimento di emancipazione che ha preso il via nel Maghreb, infiammando poi altre zone del mondo arabo, per chiedere a gran voce libertà  e democrazia contro la tirannia dei regimi. Un movimento in cui le donne hanno avuto un ruolo centrale: una decina di associazioni e ong di donne tunisine ha formato una sacca di resistenza al regime, scrivendo rapporti sullo stato della libertà  e della repressione in Tunisia per fare conoscere all’estero la drammatica situazione. “La resistenza delle donne è stata dura” – ha testimoniato Radhia Benhaj Zekri, presidente dell’Associazione delle donne tunisine per la ricerca sullo sviluppo, una delle realtà  in prima fila nella rivoluzione. “Ci è stata impedita l’azione in ogni modo” – ha detto Zekri. “Ci hanno vietato l’accesso allo spazio pubblico, siamo rimaste confinate in piccoli locali, la banca centrale ha bloccato i fondi alle ong e alle associazioni, e la polizia impediva alle giovani l’accesso alle sedi delle nostre organizzazioni. Così ci siamo dovute organizzare per sopravvivere e per restare operative. A differenza di altre rivoluzioni, quella tunisina è fatta di uomini e di molte donne, che hanno avuto un ruolo importante e all’avanguardia. E hanno pagato caro il loro impegno: sono state arrestate, ferite e uccise”.

Ora la Tunisia sta attraversando una situazione molto fragile, è in un periodo di costruzione. “Le donne – ha detto ancora la Zekri – chiedono la presenza nella costruzione delle nuove istituzioni. Dopo 50 anni, la sovranità  va ora ridata al popolo: il governo attuale è provvisorio e illegittimo, con a capo un ex presidente del Parlamento senza poteri e che garantisce solo una piccola transizione. Ci battiamo per elezioni libere, ma la rivoluzione è nata spontaneamente, senza partiti e senza leader, quindi non è di facile gestione. Ora c’è un vuoto istituzionale, c’è confusione e pericolo, perché le forze del vecchio regime continuano comunque a insidiare la rivoluzione. È nata anche una campagna per cambiare la legge elettorale, imponendo la parità  nelle preferenze, affiancando un uomo e una donna, perché il nostro motto è ‘fare la rivoluzione insieme’.

il “tema caldo” della privatizzazione dell’acqua, a pochi giorni dal referendum del 12 e 13 giugno, è stato al centro dell’ultima giornata. “Se il dibattito in Italia si concentra sul quesito referendario, il resto del mondo si confronta con il problema dell’accesso all’acqua e sugli effetti dei mutamenti climatici” – ha spiegato Susan George. Padre Alex Zanotelli ha ricordato che nel mondo 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e che le previsioni dell’Onu parlano di 3 miliardi tra qualche anno. Questo senza contare il grande problema del surriscaldamento globale. Tra le buone pratiche di lotta per il diritto all’acqua presentate a Terra Futura, vi è stata l’esperienza di monsignor Luis Infanti De La Morarappresentante del Consiglio per la difesa della Patagonia (CDP). Il vescovo della regione dell’Aysèn (Cile) ha partecipato all’assemblea degli azionisti Enel per opporsi al progetto di cinque dighe e chiedere la restituzione ai cileni dei “diritti di sfruttamento” dell’acqua. “La Patagonia – ha spiegato – negli ultimi vent’anni è diventata terra molto ambita dalle multinazionali e questo ha dato origine a scontri, anche violenti, tra i favorevoli e i contrari ai progetti proposti, o meglio, imposti. Quella delle multinazionali è un’invasione “pacifica”, che non avviene con le armi, ma con la forza del potere economico e politico, con frequenti tentativi di comprare la comunità  e pure la Chiesa e le altre organizzazioni che aiutano la gente a sviluppare un pensiero critico”. 


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