Produttività  e debito le due sfide perse

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Nella crisi la caduta dell’Italia è stata maggiore, dopo la crisi la ripresa è stata minore. L’agenzia di rating non è un’associazione etero-diretta dai magistrati comunisti. Nella prassi, una valutazione siffatta segnala una probabilità  elevata, pari a un terzo, che il voto possa essere abbassato in un futuro non lontano. In premessa, si vorrà  concordare che Standard & Poor non è un’associazione con finalità  di eversione del governo in carica, o etero-diretta da un nucleo di magistrati comunisti: le sue non sempre infallibili valutazioni possono essere certo discusse, ma nel merito e considerandone le implicazioni di politica economica.
Un giudizio di prospettive negative fu espresso di recente anche nei riguardi degli Stati Uniti. Pur se l’analisi riguarda sempre la finanza pubblica, le motivazioni sono diverse nel caso americano e in quello italiano. Nel primo, si punta il dito contro l’incapacità  di controllare un disavanzo elevato e destinato a crescere nel più lungo periodo. Nel caso italiano non si eccepisce, sinora, a una gestione lasca del bilancio pubblico (anche se, avvertita forse dalle promesse generose rivolte o preannunciate ai popoli di Milano e di Napoli, l’agenzia, in sospetta combutta con i candidati dell’opposizione, teme che un “potenziale ingorgo politico” provochi un rilassamento). La preoccupazione principale deriva dalla consapevolezza che il rientro da un livello particolarmente elevato di debito pubblico, prossimo ai massimi storici, difficilmente può avvenire in una situazione di bassa crescita e di costi del debito incomprimibili: tant’è che viene specificamente ritenuto a rischio il piano governativo di riduzione dell’indebitamento 2011-2014.
L’incapacità  di crescere a ritmi simili a quelli, neppure particolarmente elevati, degli altri paesi europei è il male oscuro che affligge l’economia italiana da più di due lustri. Nella crisi la caduta dell’Italia è stata maggiore; dopo la crisi la ripresa è stata minore, tant’è che siamo ancora lontani dai livelli del 2007. Poiché la produttività  non cresce, o addirittura diminuisce, i redditi stagnano, e con essi i consumi e la domanda. Se il prodotto cresce poco, la riduzione rispetto ad esso del debito pubblico richiede interventi sul bilancio più duri e penosi e con effetti maggiori di compressione della domanda. La diagnosi non è certo nuova e non può essere offuscata da attenuanti consolatorie: è vero, abbiamo un Sud che è più povero e cresce meno del Centro-Nord, ma nel Centro-Nord il prodotto per testa cresce meno che nei paesi europei più avanzati; è vero, abbiamo imprese di eccellenza all’avanguardia della tecnologia, ma il nostro disavanzo con l’estero aumenta e il nostro settore dei servizi, privati e pubblici, è in situazione di arretratezza. Come giustamente avverte il Ministro dell’Economia, la crescita non può essere sospinta da iniezioni di spesa pubblica in disavanzo, che, nelle nostre condizioni, aggraverebbero l’instabilità  del sistema. Altro chiede, buon ultima dopo tanti, Standard & Poor: lamentando la stagnazione della produttività , l’inefficienza del mercato del lavoro, la continua erosione di competitività , si sollecitano riforme che modifichino la struttura dell’economia per renderla più efficiente e reattiva. Promette che “se il governo riesce a ottenere sostegno politico” per l’attuazione di riforme siffatte, l’abbassamento del voto potrà  essere evitato; ma constata che “l’impegno politico per riforme che aumentino la produttività  sembra incerto”.
Proviamo a immaginare come una fonte ufficiale, quale un telegiornale Rai, potrebbe trattare tali valutazioni: l’arruolamento di reclute responsabili serve a ottenere il sostegno politico alle riforme richieste, che cento voti di maggioranza non avevano garantito per due anni; il trasferimento di un paio di ministeri da Roma a Milano darebbe un colpo di frusta all’iniziativa d’impresa in entrambe le metropoli; la sanatoria di multe e sanzioni amministrative consentirebbe, per vie ignote ma certe, un miglioramento dei bilanci pubblici; la riforma della Corte costituzionale assicurerebbe un ambiente favorevole agli investimenti dall’estero. Molti – può essere – crederebbero a queste argomentazioni; temo che le agenzie di rating stenterebbero a comprenderle.


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