Io, vandalo per amore nel ventre dell’architetto

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Puoi anche fare a meno del cinema, puoi trascorre un’intera vita senza darti pensiero di alcun quadro, puoi perfino non ascoltare musica – quantunque così facendo tu impoverisca la tua vita – ma in nessun caso puoi sottrarti all’architettura. 

A Roma chiamano in tanti modi quel complesso architettonico dedicato a Vittorio Emanuele in Piazza Venezia: l’Olivetti, la Torta nuziale, il Vittoriano. Molto diffamato, per me è un forte richiamo al foro imperiale romano, esuberante, esibizionista, appassionato. Così doveva apparire un tempo il Foro: trionfale, bianchissimo, splendente, annunciatore con grande brio del cattivo gusto romano. Dobbiamo rimettere l’architetto Sacconi al posto che gli spetta nell’architettura.
Divenni un ammiratore particolare di quel complesso architettonico quando fece da scenario clou del mio film Il ventre dell’architetto. Ora vorrei tornare a commemorarlo come ultimo elefante bianco architettonico, architettura priva di funzione, architettura intesa come mero entusiasmo scultoreo del paesaggio creato dall’uomo. Voglio trattarlo come una quinta architettonica. Illuminarlo con luce che cambi di continuo, tirarne fuori tutto lo splendore e l’ampollosità . Intendo illuminarlo e usare la musica. E proiettare sulle sue superfici bianche immagini consone. Sui suoi spazi sfavillanti, le sue scalinate e le sue statue, i suoi angolini e tutti i suoi recessi. Raccontare a partire dall’edificio con la luce e la musica, diverse per ogni giorno della settimana, per i festivi e le ricorrenze. Vorrei farne la decorazione architettonica di una performance notturna. I romani sono molto ambigui verso questo edificio. Ma a prescindere da ciò che ognuno può pensarne, è come un palcoscenico la cui rappresentazione è Roma. E come ogni buon teatro lirico è di per sé commedia e opera. Molto da indagare, molto da non afferrare. Diverso ogni giorno. 
E confesso un atto vandalico. Parti del Vittoriano erano aperte al pubblico quando girammo Il ventre dell’architetto, a metà  degli anni Ottanta. Scrissi il mio nome su uno dei pianerottoli più in alto. L’edificio è rimasto essenzialmente chiuso al pubblico per venticinque anni; adesso è riaperto e ho cercato il mio nome. Malgrado i restauri, è ancora lì. Avevo firmato per fare mio quell’edificio. Il fatto che la mia firma sia tuttora lì significa che è ancora mio. 
Traduzione di Anna Bissanti


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