Bersani e il garante sul tetto che scotta

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L’Authority presieduta da Corrado Calabrò, seppure spaccandosi al suo interno, ha già  ordinato ai telegiornali un “immediato riequilibrio” tra maggioranza e opposizione. E ha inflitto al Tg Uno di Augusto Minzolini una multa di 100 mila euro “per l’inadeguata osservanza dell’ordine e dei richiami rivoltigli in precedenza”.

Chi pagherà  questa multa? La Rai, ovviamente: quindi il ministero dell’Economia che ne detiene la proprietà . Cioè tutti noi, telespettatori e abbonati che paghiamo regolarmente il canone. Un danno erariale, di cui l’intrepido direttore del Tg Uno dovrà  rendere conto al vertice della sua azienda o magari alla Corte dei Conti. Come pure dovrà  rendere conto delle spese non autorizzate con la carta di credito aziendale, per le quali è indagato ora dalla Procura di Roma per peculato.
La permanenza di Minzolini alla guida della principale testata giornalistica del servizio pubblico è diventata ormai uno scandalo nazionale. Sulla scia del suo padrino e protettore, Silvio Berlusconi, anche lui ribatte che le accuse della magistratura sono una “operazione politica”. Ma intanto ha dovuto già  restituire 64 mila degli oltre 80 mila euro spesi a carico della Rai. E quanto alla multa di 100 mila euro, comminata ora dall’Agcom, la stessa Authority spiega ufficialmente che si tratta di un comportamento recidivo e perciò consapevole, volontario, doloso.
Nel libro intervista citato all’inizio, a cura di Miguel Gotor e Claudio Sardo, il segretario del Partito democratico riconosce adesso che sul conflitto di interessi “dovevamo fare di più” e poi annuncia: “A mio giudizio, è necessario riformare la stessa Autorità  delle comunicazioni, evitando le attuali lottizzazioni e assumendo come modello l’Autorità  per l’energia, dove tutti i componenti del consiglio di amministrazione devono avere il gradimento dei due terzi del Parlamento”.
Evviva. Prendiamo in parola il riformista Bersani. E in attesa che dalle buone intenzioni si passi ai fatti concreti, auspichiamo che il Partito democratico – “motu proprio” – prenda ufficialmente almeno l’impegno unilaterale di non designare più al vertice delle Autorità  di garanzia e nei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche o parapubbliche ex parlamentari, ex uomini di governo o sottogoverno, ex rappresentanti o funzionari di partito, ex amministratori locali, insomma ex politici di militanza e professione. Sarebbe già  un passo avanti.
Quello di Minzolini e del “suo” Tg Uno, non è tuttavia un esempio isolato di malatelevisione nel panorama dei telegiornali pubblici e privati. A parte quelli “familiari” che appartengono direttamente all’azienda del presidente del Consiglio, non si può ignorare il caso più recente di Emilio Carelli, direttore di SKY Tg24, che ha condotto (si fa per dire) il “faccia a faccia” tra Letizia Moratti e Giuliano Pisapia, candidati alle amministrative di Milano. Di fronte al proditorio attacco del sindaco uscente contro il suo sfidante, accusato falsamente di essere stato condannato per il furto di un furgone che doveva servire per il rapimento e il pestaggio di un militante del movimento studentesco, Carelli ha suonato tranquillamente il gong e ha negato a Pisapia il diritto di replica.
È vero che il tempo della trasmissione era scaduto. Ma, quando si tratta di un fatto personale e per di più di (presunta) rilevanza penale, non si può impunemente togliere la parola alla persona offesa. Altrimenti, come sostiene la “Società  Pannunzio per la libertà  d’informazione” in un esposto all’Ordine dei giornalisti, si giustifica la critica di aver “violato le più elementari regole di deontologia professionale”. Un comportamento sleale e scorretto, dunque, che configura “una condotta inqualificabile”.


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