L’autoconservazione della classe politica
Da nessuna parte, in nessuna pagina si troverà qualcosa di lontanamente paragonabile all’apoteosi dell’indecenza sancita dall’ingresso dei “responsabili” nel sottogoverno (dal primo ingresso: è prevista una seconda ondata). Non si troveranno neppure parole adeguate: trasformismo è termine che gronda nobiltà e dignità , al paragone. E i voltagabbana del passato, in fondo, avevano pur avuto una gabbana. Eppure gli storici del futuro dovranno un granello di gratitudine anche a questo coacervo impresentabile e indefinibile di eletti: un “documento” prezioso del degrado ultimo cui la politica è giunta nel nostro Paese. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht: ma che dire di un governo che ha bisogno dei “responsabili”?
Non ci si fermi però alle accidentate biografie e all’improntitudine dei promossi, o alle rancorose rivendicazioni degli esclusi (“c’è ancora un’iradiddio di nomine da fare”, si consola elegantemente uno di essi). E non si dimentichino altri casi in cui il premier ha utilizzato, o tentato di utilizzare, incarichi pubblici per uso privato. O per aggirare la legge e la giustizia: si pensi al tentativo di salvare in extremis l’imputato e condannato Aldo Brancher inventando per lui un ministero di cui era incerto sin il nome. Si vada al cuore del problema, cui questa vicenda per più versi rimanda. Da un lato i “responsabili” sono il corollario di una concezione della politica che il Pdl ha progressivamente imposto e che comprende al suo interno anche il “sistema” illustrato a suo tempo da Denis Verdini. O la filosofia della cricca, che ci è stata ricordata anche ieri dalle cronache giudiziarie. Dall’altro lato il premier ha potuto perseguire anche in questo caso quella “diseducazione civica” cui si dedica da sempre con grande impegno: dopo aver legittimato l’evasione fiscale e delegittimato l’istruzione pubblica non poteva perdere l’occasione per premiare gli sfregi più vergognosi e dichiarati alla politica come servizio, allo Stato come bene comune. Certo, siamo giunti alla farsa ma nella storia le farse non allontanano le tragedie. Spesso aprono loro la via.
Vent’anni fa, nell’agonia della “prima repubblica”, Edmondo Berselli osservava che il ceto politico italiano era ormai attraversato e scosso: «Da due spinte esattamente opposte: l’istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». L’«immobilità parossistica» della scena politica mascherava però male – aggiungeva Berselli – il crescere di una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma pericolosamente vicino al collasso del sistema».
Fa impressione rileggere a distanza d’anni un’analisi così lucida, che ebbe di lì a poco probanti conferme. E vale la pena tenerla presente anche oggi, perché illumina meglio molte vicende delle ultime settimane. Anche in esse è stato molto difficile distinguere i drammi reali dalle parodie di quart’ordine messe in scena in loro nome. Ad Aldo Capitini e a Danilo Dolci, per fortuna, è stato risparmiato il “pacifismo” dei leghisti, apertamente motivato con la necessità di arginare il dilagare degli immigrati e di affermare il proprio peso politico nel governo (cioè il proprio non clandestino dilagare in molteplici enti e istituzioni). Dopo l’approvazione di una mozione grottesca Bossi ha rispolverato il “celodurismo” e ha aggiunto: la Nato dovrà tenerne conto. “Mamma mia che impressione”, avrebbe detto Alberto Sordi. Per non parlare del nostro ministro della Difesa, che da tempo non sembra più padrone di sé. Basta qualche contestazione in Parlamento, o semplicemente a “Ballarò”, per trasformarlo nella inquietante caricatura del La Russa che nei primi anni Settanta capeggiava i giovani missini milanesi (non troppo raccomandabili, a leggere le cronache di allora). All’equilibrio e alla saggezza di quest’uomo è affidato il nostro esercito.
Anche in precedenza non ci era stato risparmiato proprio nulla: l’irrilevante che sostituisce l’essenziale, l’interesse privato che soppianta quello pubblico, la menzogna più sfacciata che irride a ciò che le persone normali vedono e sanno. In qualunque altro Paese non sarebbe rimasto al suo posto neppure per un secondo un ministro dell’ambiente capace di dichiarare: “non possiamo rischiare le elezioni amministrative per il nucleare”. Né è immaginabile altrove un premier che ammetta (o rivendichi, come nel nostro caso): ci siamo inventati un bell’imbroglio per confermare la scelta nucleare. Tutto nel giro di pochi giorni, e all’indomani di una sciagura immane. Per più versi però la deriva del governo chiama in causa il Paese nel suo insieme: «Gli italiani non sembrano capire il disastro in cui si trovano. Il nostro è un curioso destino, abbiamo la libertà delle catastrofi, la libertà degli irresponsabili, la vacanza che coincide con l’anarchia». Lo scriveva Corrado Alvaro sessant’anni fa, e ci sembrano parole terribilmente attuali.
La difficoltà di cogliere lo spessore del dramma sembra attraversare anche le opposizioni. Solo così si spiegano le troppe assenze inspiegabili (come quelle che hanno permesso l’approvazione del documento economico del governo) e i troppi conflitti interni, solo parzialmente sopiti negli ultimi tempi. Di qui l’urgenza di quel colpo d’ala, di quella capacità di invertire la tendenza cui si è riferito il Presidente Napolitano. Difficile dir meglio: è necessaria un’alternativa di governo «credibile, affidabile e praticabile». È necessaria una sinistra capace di “togliersi di dosso ogni sospetto di volersi insediare al potere come alternativa senza alternativa”. Capace, insomma, di mettere in campo proposte concrete e convincenti, connesse a un’idea generale di futuro
È un passaggio obbligato: non solo e non tanto per smuovere orientamenti elettorali stagnanti quanto per rimettere in moto il Paese. Per arrestare un declino. Per dare voce e fiducia a quella parte dell’Italia che non si è arresa, che ha ancora voglia di rimettersi in gioco. «L’Italia con gli occhi aperti nella notte triste», come cantava Francesco De Gregori. Di tempo, forse, non ne è rimasto moltissimo.
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