Rinascono i partiti della sinistra egiziana, per ora divisa e debole
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Se tra gli obiettivi di gran parte dei partecipanti alla conferenza di sabato scorso su come «proteggere» la rivoluzione egiziana del 25 gennaio c’è la possibile formazione di un fronte elettorale con buona parte delle forze liberali e laiche (contrapposto al partito dei Fratelli Musulmani), a sinistra invece regna la frammentazione. Partito democratico dei Lavoratori, Partito democratico socialista, Partito socialista rivoluzionario sono solo alcune delle nuove forze politiche nate a sinistra dopo la caduta di Mubarak che vanno ad aggiungersi a quelle già esistenti, come il (morente) Tagammu. Senza dimenticare il riemergere dalla illegalità del Partito comunista egiziano, probabilmente il più organizzato a sinistra, che il primo maggio ha potuto sventolare di nuovo le sue bandiere in Piazza Tahrir (fondato nel 1922, il Pce ha operato clandestinamente tra il 1924 e la metà degli anni ’60, quando venne sciolto. È rinato nel 1975). Nei giorni scorsi inoltre ha tenuto il suo primo congresso l’Alleanza popolare socialista, un partito dal marcato orientamento marxista che chiede, persino più del Pce, un forte ruolo dello Stato, la fine del liberismo in economia e del programma di privatizzazioni svolto da Mubarak e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
La nuova sinistra egiziana non pare destinata ad ottenere risultati significativi alle elezioni di settembre. Alcuni partiti potrebbero persino fallire l’obiettivo minimo dei 5mila tesserati, obbligatorio per partecipare al voto sulla base dei criteri fissati dalla legge elettorale formulata dal Consiglio supremo delle Forze Armate. L’Alleanza popolare socialista, ad esempio, sino ad oggi ha raccolto poco meno di mille membri. E la presenza di tanti partiti ridurrà inevitabilmente anche le possibilità del Pce di raccogliere consensi. «La riorganizzazione della sinistra egiziana è necessaria per dare un contributo allo sviluppo del paese, costruire ponti tra i vari settori della società e limitare le divisioni alimentate dalle religioni», spiega Abul Ezz el Hariri, un ex deputato del Tagammu, in evidente riferimento agli scontri tra musulmani salafiti e copti che stanno insanguinando le strade dei quartieri popolari del Cairo. «Tuttavia per essere credibili e inseriti nel tessuto sociale – avverte el Hariri – dobbiamo unire le forze politiche con programmi e ideologie simili. Andare al voto di settembre divisi in tanti partiti sarebbe un suicidio»
Lancia un appello ai partiti di sinistra a «rinunciare all’isolamento» e ad unirsi alle forze laiche, l’attivista Mona Zolfaqar, che insiste per la creazione di una «barriera» da opporre alle liste islamiche che, secondo le previsioni di molti, potrebbero ottenere oltre il 50% dei seggi del Parlamento. «I partiti marxisti propongono un Egitto con diritti per tutti, di giustizia sociale e di parità tra uomo e donna, ma questi programmi, che pure sono largamente condivisibili, resteranno dei pezzi di carta se al potere andranno le forze conservatrici, con orientamento religioso. L’unità di laici e socialisti non è solo una possibilità da considerare ma un obbligo». Un discorso che a sinistra raccoglie consensi parziali. Il Pce, ad esempio, non crede allo scontro frontale con i Fratelli Musulmani, al contrario non esclude il dialogo con gli islamisti su temi come la giustizia sociale e il lavoro. «Spero che la sinistra riveda alcune sue posizioni troppo ideologiche e faccia i conti con l’Egitto che abbiamo davanti agli occhi – dice Zolfaqar – non serve a molto avere uno o due deputati nel nuovo Parlamento quando il paese rischia di precipitare all’indietro».
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