La privatizzazione del Bel paese
Esiste ancora il Bel Paese ? Lo chiede un lettore, rispondendo a un altro che spiritosamente parla del Bel paese di Galbani invece che di Stoppani, l’autore misconosciuto di quel famoso volume che raccontava, circa ai tempi dell’unità d’Italia, le meraviglie sconosciute dello Stivale. Ormai c’è da ridere, visto che non solo il Bel paese non c’è più, ma neanche Galbani, ingoiato dai francesi di Lactalis e Parmalat. Si è persa o compromessa la bellezza e anche l’industria, per la cui realizzazione si erano fatti tanti «inevitabili» abusi ambientali. L’immagine della megalopoli, «squallida e invivibile», estesa da nord a sud, corrisponde alla realtà . Il paese è largamente cementificato, lungo le coste i fiumi (il Po è l’esempio più rilevante del disastro ambientale) e le strade principali; e abbandonato nelle parti restanti, considerate di minor pregio. Il decreto governativo sullo sviluppo di cui non si conoscono ancora i termini precisi, agisce nel senso di aggravare la situazione, consentendo costruzioni sul litorale, aumento delle cubature, licenza di fare ogni obbrobrio nel quadro, discreto, del silenzio-assenso. Le amministrazioni locali sono simili – di destra e di sinistra – e non ci si può fidare di loro: di questo i lettori sono convinti. Un cambiamento, una scelta democratica, popolare di una fase nuova potrebbe nascere dai referendum, soprattutto i due rimasti sull’acqua, bene comune. Non sarà certo la promessa di un’authority di regolazione a scaldare i cuori. E’ vero che l’assuefazione degli italiani agli scempi «viene da lontano». La stessa proprietà della casa, cui gli italiani sono stati obbligati, con i mutui da pagare e tutto il resto, ha generato una società avida e sospettosa, piena di paure e di risentimento. Serve una leva forte, democratica, per cambiare. I referendum potrebbero servire.
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