Materialismo comico e socialismo surreale

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Che ci introduce nel clima letterario e culturale della Germania della prima metà  dell’Ottocento: le irrequietudini romantiche, il rifiuto del classicismo, l’enorme popolarità  di Sterne e del suo Tristram Shandy. Proprio di Sterne il giovane Marx è un convinto epigono quando prende a scrivere il suo tentativo di romanzo parodistico, anzi di parodia del romanzo, puntando sulla destrutturazione dei luoghi comuni narrativi e sul continuo auto-stravolgimento della trama, che saltabecca da una situazione a un’altra, da un personaggio all’altro, facendosi beffe della compiutezza formale del romanzo classico. Quasi surrealisticamente, tanto che Pedullà , nella sua prefazione, fa notare che nel vastissimo e variegato mondo della cultura comunista novecentesca, solo Breton e i surrealisti sarebbero stati in grado di apprezzare quello scritto marxiano tanto anomalo e inatteso. Per il lettore moderno è molto difficile cogliere i riferimenti satirici al mondo politico-culturale dell’epoca: la satira ha quasi sempre un’alta deperibilità  perché i modelli che cita e stravolge si sono nel frattempo estinti, o consumati. Si coglie bene, invece, lo spirito beffardo, anti-accademico, con il quale il ragazzo Marx mette in scena la sua storia strampalata e inconclusa. Si va dalla parodia della pomposità  accademica (sull’etimologia di un nome l’autore spende tre noiosissime pagine, facendo il verso alla pedanteria di chissà  quale professorone dell’epoca), alla demolizione quasi goliardica del sentimentalismo. In certi passaggi quasi si indovina nell’autore il futuro Marx “ufficiale”, lo svelatore della struttura economica e sociale come motore primo (e spesso occulto) delle idee e dei comportamenti umani (la sovrastruttura). Accade quando i personaggi provano sentimenti che l’autore, perfidamente, attribuisce subito dopo a disturbi corporei o intoppi comunque fisici, divertendosi a ricondurre alla carne vile quegli ideali e quelle passioni che allora (e non solamente allora) la letteratura descriveva come spirituali, eteree. Fino alla scenetta finale, nella quale si pratica un clistere al cane Bonifacio (chiamato San Bonifacio dal religiosissimo padrone) e si stabilisce – sono le ultime parole del libro – un collegamento tra «ostruzione intestinale del cane e profondità  delle idee», beffa anti-idealista che al giovane Karl dovette sembrare impagabile. Testo a parte, è evidente che l’importanza di Scorpione e Felice sta soprattutto nello stridente contrasto tra l’icona severa e incombente del Padre Marx, sorta di nume barbuto per qualche generazione di uomini e donne di ogni parte del mondo, e il concetto stesso di umorismo. Pedullà  fa notare che il forse più insigne tra i critici letterari marxisti di tutti i tempi, Lukacs, deprezzò Sterne e il Tristram Shandy mano a mano che consolidava il suo lavoro sul realismo socialista come probabile ritorno alla “totalità  umana” dei classici. Come se – detto in parole semplici – l’umorismo non fosse all’altezza della serietà  dell’impegno politico, né fosse in grado, procedendo per frammenti, per rotture di schemi, di dare dell’umanità  una visione “totale”. È in parte vero: alla base dell’umorismo c’è il senso del limite, che nelle sue varie espressioni (da una parte il pudore, all’altro estremo il cinismo) suggerisce di non cedere ad alcun tipo di “totalità “. Eppure Heinrich Heine, poeta romantico tedesco molto amato e frequentato da Karl Marx, vedeva in Sterne «un umorismo assoluto, nel quale si fondono sublime e ridicolo». Sublime e ridicolo, le due facce della medaglia umana, come in un successivo e fortunato aforisma (forse di Karl Kraus) viene detto anche meglio: il comico è solo il tragico visto di spalle. E in fin dei conti, anche se il Marx apprendista satirico fu, come emulo di Sterne, molto approssimativo e svogliato, sapere che esordì come umorista lo risarcisce, almeno in parte, dell’uso super-strutturato che i suoi emuli fecero del suo pensiero, ossificandolo in precetti para-religiosi che avrebbero trovato degna parodia in Scorpione e Felice. È destino, peraltro, di molti culti umani vedere il fondatore trasfigurato in idolo, e un clero trasformare, nei secoli, l’energia intellettuale degli inizi in una cupa costruzione dogmatica – cioè in puro potere. Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini». Se non un quinto fratello Marx (ad honorem), certo non un minaccioso pontefice.


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