Tripoli, assalto all’ambasciata italiana

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BENGASI – Al posto del tricolore, sulla nostra ambasciata di Tripoli sventola il vessillo verde della rivoluzione di Muammar Gheddafi. La bandiera italiana è stata sostituita lunedì scorso, in concomitanza con l’annuncio del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che i nostri caccia avrebbero partecipato assieme a quelli della Nato ai bombardamenti sulla Libia. Una vendetta? «Hanno sfondato la porta blindata della nostra sede diplomatica, evacuata dall’ambasciatore Vincenzo Schioppa e dal suo staff il 18 marzo, dopo l’adozione della risoluzione Onu», racconta Guido De Sanctis, console generale a Bengasi, da quando, il 4 aprile scorso, Roma ha riconosciuto la legittimità  politica del Consiglio nazionale di transizione delle forze democratiche libiche. «C’è il timore che adesso vengano trafugati i computer, i documenti, i soldi nella cassaforte e gli adesivi dei visti Schengen», dice ancora De Sanctis. Dopo l’assalto all’ambasciata, i gheddafisti potrebbero saccheggiare la residenza dell’ambasciatore, anch’essa incustodita da più di un mese. Come già  accadde al consolato di Bengasi nel 2006, anche a Tripoli per prima cosa hanno dunque strappato la nostra bandiera, come per rivendicare la conquista di un edificio che era territorio italiano. Cinque anni fa, a Bengasi, il ragazzo che si arrampicò sul tetto del consolato per togliere il tricolore fu centrato da un proiettile della polizia, diventando così la prima delle quindici vittime che si registrarono in quell’occasione. Il giorno dopo, dal consolato italiano furono divelti perfino i lavandini. Ieri, intanto, Washington ha dichiarato che il governo provvisorio di Bengasi merita il sostegno degli Stati Uniti, un primo passo in previsione di riconoscerlo ufficialmente. A Parigi, invece, lo scrittore Bernard-Henri Lévy ha pubblicato un documento firmato dai capi di 61 tribù libiche, con cui affermano il progetto di ricostruire una Libia unita una volta che il dittatore avrà  lasciato il potere. Chiediamo il perché di questo testo a uno di loro, Omar Muftah al Wakwak, 73 anni, con indosso una candida jellabiya, un gilet ricamato e lo zucchetto cremisi della Cirenaica. «L’abbiamo redatto anzitutto per smascherare le bugie del Colonnello, il quale si fa riprendere dalle telecamere con capi tribù che sono in realtà  degli impostori», dice Al Wakwak. «Nei quattro decenni in cui è stato al potere, non ha fatto altro che tentare di spodestarci. Ma adesso ha superato ogni limite, perciò imbracceremo il fucile contro le sue milizie, per dimostrare che noi libici formiamo una sola tribù, la tribù di un popolo libero, in lotta contro l’oppressione». Sul terreno, la guerra si fa sempre più cruenta. Zintan, cittadina nelle mani degli insorti a circa 160 chilometri da Tripoli, è stata ieri martellata da razzi Grad lanciati dalle milizie del Colonnello. «Da stamattina siamo sotto un intenso bombardamento: cinque case sono già  state distrutte, ancora non si contano morti, ma alcuni bambini sono stati feriti dalle schegge», ha detto via telefono un portavoce. Sempre secondo testimonianze locali, le brigate fedeli a Gheddafi, stanno anche attaccando con proiettili di mortaio e di artiglieria il valico di Dehiba, al confine con la Tunisia. Infine, alle 6 di sera, colpi di mortaio hanno centrato diverse abitazioni nei quartiere occidentali di Misurata, città  sotto assedio da ormai due mesi, e dove, a sentire il commissario europeo agli Aiuti umanitari, Kristalina Georgieva, la situazione è davvero vicino al collasso. Ieri, tuttavia, gli insorti sono riusciti mettere in sicurezza il porto della città , dopo che le truppe governative avevano tentato di appropriarsene, sempre usando l’artiglieria pesante.


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