Costituzione, lavoro e libertà Il compromesso per una rinascita
E non lo sarà nemmeno quando del furore revisionistico dell’onorevole Remigio Ceroni, e magari anche di altre e all’apparenza più impegnative sortite (a proposito: che ne è dell’impegno del centrodestra a riformare radicalmente l’articolo 41, secondo il quale la libera iniziativa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» ?) avremo perso memoria. Benissimo. Discutiamo. E allora dico subito che sull’articolo 1 sono più d’accordo con Michele Ainis (Corriere, 21 aprile) che con Panebianco. Magari (non sono un costituzionalista) per motivi che Ainis in parte non condividerebbe. Più ci penso e più mi piace, il fatto che la nostra sia una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e vorrei che in forme nuove, lo fosse anche di più. Questa formulazione è il risultato di un’intesa tra democristiani, comunisti e socialisti, moltissimi dei quali, in particolare ai tempi della Costituente, avevano a che fare più con le Madonne Pellegrine e con Giuseppe Stalin che con il liberalismo? Le cose sono parecchio più complicate, ma prendiamo pure per buono un simile, lapidario giudizio. Resta il fatto che, tenendo fermo anche negli anni di più feroci contrapposizioni il principio così solennemente affermato nel primo articolo della sua Costituzione, questo Paese è stato prima ricostruito, poi avviato sulla strada di uno sviluppo economico e civile contraddittorio e costoso quanto si vuole, ma tuttavia formidabile, e impensabile al di fuori di un crescente allargamento delle basi sociali e politiche della democrazia e dello Stato. Non giurerei che sarebbe stato agevole riuscirci in nome dei «diritti di libertà » , che non saranno contenuti (Ainis) «come il mallo nel noce» nella democrazia, e che però fatico a considerare alternativi a quelli del lavoro. Dovremmo tenerlo a mente. Sarà pure stato un compromesso, ma in un Paese distrutto dalla guerra, e in una stagione in cui poco mancava che ci si sparasse dai tetti, su quel compromesso si fondò la rinascita dell’Italia. Basterebbe molto meno per essere grati ai costituenti. Vuol dire che, per questo, dobbiamo tenercelo per sempre? L’obiezione è nota, e anche fondata. Tutta questa impalcatura avrà pure avuto in un passato ormai remoto i suoi meriti, ma è venuta fragorosamente giù, all’inizio dei Novanta, prima di tutto perché era ormai marcia. E, se bisogna costruirne una nuova, non si può certo pensare di farlo poggiando sulle basi di quella che è appena crollata. Dunque, la Costituzione va cambiata, eccome. Sono quasi vent’anni che si gira in tondo attorno alla questione, e senza alcun costrutto: finito il tempo dei tentativi d’intesa destinati in partenza al disastro, siamo entrati in quello dello scontro furibondo tra chi vorrebbe mutarla in profondità a propria immagine e somiglianza e chi alza la bandiera (fino a qualche anno fa si diceva: nobilmente conservatrice) della Costituzione che non si tocca. A sostenere che andrebbe non stravolta, certo, ma ragionevolmente riformata sì, e che di questo, se non è già troppo tardi, bisognerebbe discutere anche perché andando avanti di questo passo l’implosione di quel poco che resta delle nostre istituzioni e della nostra stessa convivenza diventerà rapidamente inevitabile, ci si condanna da sé a una posizione a dir poco minoritaria. Pazienza, anche questo fa parte, eccome, del mestiere dei riformisti, non necessariamente di sinistra. Che però farebbero bene a occuparsi di come rivalutarlo, il lavoro, in primo luogo quello negato ai più giovani, di come restituirgli prospettive, senso, dignità e considerazione sociale, perché in caso contrario di superare la crisi non se ne parla nemmeno. A grandi linee, è quello che, in tutt’altro contesto, fecero i costituenti, con risultati tutto sommato più che apprezzabili. Espungere il lavoro dalla Costituzione non mi pare il modo migliore per conseguirne di analoghi.
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