La crisi libica e il ruolo dell’Italia

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La rappresentazione di uno tsunami che investe l’Italia è chiaramente strumentale alle fantasie e agli interessi elettorali leghisti. Come tutti sanno, la condizione dell’immigrazione in Italia è molto meno drammatica che in altri paesi. C’è sì uno tsunami migratorio, che riguarda un’isola, Lampedusa, che va affrontato, come finalmente si è fatto con grave ritardo, con politiche di dislocazione degli immigrati nel territorio nazionale, osteggiate vigorosamente dalla Lega. Un problema europeo, invece, certamente esiste sul problema drammatico dell’immigrazione. Quel problema è oggi ingigantito dai movimenti insurrezionali che investono i paesi arabi. Questi movimenti hanno colto l’Europa di sorpresa. I governi europei, tutti, scorgevano in quei paesi una sola minaccia di sovversione, quella islamica. E accettavano le politiche populiste che sembravano proteggerli da quella minaccia. C’erano quelli che lo facevano solo per realpolitik. E quelli che ci mettevano dell’entusiasmo, per congeniale simpatia verso i regimi autoritari e i leader folkloristici. L’insurrezione libica e la conseguente violenta repressione li hanno costretti a una scelta: appoggiare apertamente la rivolta o lasciarla al suo destino. Ambedue le scelte hanno i loro rischi. La prima è che attraverso quelle confuse insurrezioni si sviluppi davvero una più violenta minaccia islamica. La seconda è che la prospettiva di una evoluzione democratica di quei paesi sia perduta e con essa un futuro migliore per quelli e per l’Europa stessa. Penso che la seconda sia di gran lunga peggiore. Stare a guardare per capire come si mettono le cose è stolto se intanto ti cavano gli occhi: se la repressione schiaccia ogni prospettiva democratica. Bene hanno fatto i francesi a impedire con un pronto intervento che la ribellione fosse schiacciata nella sua culla. La politica non può aspettare le ricerche sociologiche. La scelta del non intervento è la peggiore per una semplice ragione. Non possiamo essere spettatori di un dramma nel quale siamo direttamente coinvolti: per l’immediata prossimità  e anche, certamente, perché esso investe il petrolio. Che non è solo la fonte dello strapotere delle Grandi Sorelle, ma anche del nostro benessere materiale. C’è qualcuno, tra gli indignati che il petrolio sia una ragione dell’intervento, disposto a rinunciare alla sua quota di consumi vistosi? Dunque le ragioni forti dell’intervento sono politiche ed economiche. Non umanitarie. Non ci si può commuovere sulle vittime della Libia e fregarsene delle stragi che si compiono nell’Africa nera. D’altra parte non mi convincono le istanze pacifiste applicate a Gheddafi. E’ difficile parlare in termini critici del pacifismo all’indomani del fatto che ci ha commosso e sconvolto. Dico egualmente ciò che penso. Penso con grande rispetto al pacifismo praticato come ideale, come messaggio e soprattutto come missione praticata con impavida semplicità  fino al sacrificio della vita. Non credo nel pacifismo come pratica politica che per essere coerente dovrebbe condannare la guerra e la resistenza armata al nazismo, disarmandoci di fronte ai nemici della libertà . Mi chiedo se in questo pacifismo assoluto non trovi sfogo quell’antiamericanismo sistemico che costituisce la residua passione della sinistra; e che oggi prende di mira il più democratico presidente degli Stati Uniti. Quanto all’Europa. Mai come oggi è evidente l’impotenza che deriva dalla sua assenza politica. Solo un’Europa unita avrebbe dato alla giusta scelta di appoggiare l’insurrezione giovanile nei paesi arabi un sostegno non inficiato da sospetti nazionali egemonici, mettendola in grado di usare il suo grande peso economico e politico per pilotarla verso un esito democratico. Quanto, ancora, all’Italia. «Meglio soli che male accompagnati», ha recitato il ministro degli Interni. E se n’è andato. Male accompagnato.


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