Israele, il parlamento unito mette al bando l’agenzia delle Nazioni unite
L’opposizione vota con il governo israeliano per rendere illegale l’agenzia delle Nazioni unite. Riprende il negoziato per mini-tregue a Gaza. Nel nord 100mila in trappola, 50mila espulsi. All’ospedale Kamal Adwan arrestati tutti i medici
L’inaugurazione della sessione invernale del parlamento israeliano ha fatto ieri da specchio allo scollamento tra le esigenze della guerra a oltranza della politica e la frustrazione delle famiglie dei cento ostaggi ancora a Gaza.
Mentre un gruppo di familiari entrava nelle commissioni dando voce alla richiesta di un accordo immediato con Hamas e accusando in prima persona il premier Benyamin Netanyahu di sabotare il dialogo, la Knesset votava in seconda e terza (definitiva) lettura la messa al bando dell’Unrwa.
Ognuno ha le sue priorità. Quella del governo israeliano ha radici storiche: l’esistenza stessa dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi con i suoi sette decenni di storia è minaccia intrinseca. Attraverso i servizi forniti a sette milioni di rifugiati in diaspora (due terzi dell’intero popolo palestinese), salvaguarda il loro inalienabile diritto al ritorno.
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LA LEGISLAZIONE anti-Unrwa è composta da due disegni di legge: il primo rende illegale la presenza e il lavoro dell’agenzia a Gerusalemme est occupata, l’altro li proibisce nel resto dei Territori, Gaza e Cisgiordania. Obiettivi che vengono ora realizzati vietando qualsiasi contatto tra Unrwa e autorità israeliane e dunque sia il rilascio dei visti ai dipendenti stranieri sia le autorizzazioni al transito di aiuti, finanziamenti e staff verso i Territori (unica via di passaggio è Israele).
Prevista anche la chiusura della sede storica di Gerusalemme, cuore pulsante dell’intera rete operativa dell’agenzia. Di voci contrarie non se ne sono alzate, anche le opposizioni hanno annunciato il voto a favore della messa al bando dell’Unrwa, accusata di essere di fatto organizzazione terroristica.
Gli effetti saranno catastrofici, soprattutto a Gaza dove quel poco di aiuti che entrano sono distribuiti e gestiti nella gran parte proprio da Unrwa. Lo sa la comunità internazionale che nei giorni scorsi ha ribadito la contrarietà alla messa al bando, dalla Ue all’Onu ai principali paesi donatori – tra cui Francia, Regno unito, Germania e Canada – che in una nota congiunta esprimono «grave preoccupazione».
Più dura l’associazione palestinese Adalah che parla di violazione della decisione della Corte internazionale di Giustizia del 26 gennaio scorso che obbliga Israele a prendere tutte le misure per fornire aiuti umanitari a Gaza. Sarebbe la prima volta nella storia delle Nazioni unite che un suo Stato membro dichiara illegale un’agenzia Onu.
IL VOTO si è svolto mentre il nord di Gaza entrava nella sua quinta settimana senza aiuti. L’assedio imposto dalle truppe israeliane non è rotto e agli attacchi militari e la distruzione dei rifugi si è unita l’espulsione forzata: già 50mila i palestinesi cacciati. Altri 100mila sono in trappola tra Jabaliya, Beit Hanoun e Beit Lahiya, la città dove ieri è terminato la feroce incursione nell’ospedale Kamal Adwan. In tre giorni l’esercito lo ha privato dei suoi 44 medici, tutti arrestati (ne resta solo uno, un pediatra) rendendolo di fatto un guscio vuoto.
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Tel Aviv parla di «un centinaio di terroristi» arrestati al Kamal Adwan, i palestinesi rispondono: si tratta di medici, pazienti e sfollati. Si aggiungono ai 500 palestinesi catturati nel nord negli ultimi giorni e portati via sui camioncini, bendati e ammanettati. «I rifugi sono stati svuotati e bruciati. Ai soccorritori è stato impedito di salvare le persone da sotto le macerie. Le famiglie sono state separate e uomini e ragazzi portati via a camionate», ha detto ieri Joyce Msuya, coordinatrice dell’agenzia umanitaria dell’Onu, Ocha.
I raid aerei proseguono anche altrove, ad az-Zawayda, Deir al-Balah, Nuseirat, Rafah, con il bilancio delle vittime che ha superato le 43mila (almeno 53mila contando i dispersi) e 101mila feriti dal 7 ottobre 2023. Il 60% sono donne e bambini.
Da parte sua Netanyahu ieri, alla Knesset, si diceva intenzionato «a continuare il processo degli storici Accordi di Abramo e a raggiungere la pace con altri paesi arabi», mentre tiene aperti cinque fronti di guerra regionale. Nelle stesse ore rientrava da Doha a Tel Aviv la delegazione del Mossad e della Cia che, dopo settimane di silenzio, hanno partecipato al tavolo qatarino per l’accordo tra Hamas e Israele.
IL PREMIER israeliano ha detto che la discussione proseguirà intorno al possibile scambio tra «pochi ostaggi» e qualche giorno di tregua a Gaza. Secondo l’ufficio di Netanyahu, «le parti hanno discusso una nuova struttura che combina le precedenti proposte e tiene conto dei recenti sviluppi nella regione». Probabile che in mente abbia il Libano dove l’invasione-lampo non dà i risultati sperati e il numero di soldati uccisi aumenta insieme ai mal di pancia di un pezzo, minoritario, di opinione pubblica.
Sull’altro fronte, secondo fonti stampa saudite, Hamas – consapevole che prima del 5 novembre e del voto negli Stati uniti una soluzione definitiva è utopica – è pronto ad accettare la proposta egiziana di cessate il fuoco temporaneo (due giorni per quattro ostaggi, estendibili di 48 ore in 48 ore) come primo passo per il ritiro israeliano dalla Striscia.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto
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