Gaza. Mai così pochi aiuti, il nord sigillato da Israele è costretto alla fame

Gaza. Mai così pochi aiuti, il nord sigillato da Israele è costretto alla fame

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Onu e ong denunciano la chiusura, i soldati israeliani confermano: il Piano dei Generali è già in atto. Costi folli al mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio: al nord un chilo di cetrioli costa 150 dollari, 25 chili di farina mille. E l’83% del cibo non arriva a destinazione. E in Libano nuovi spari su Unifil

 

«La gente è in modalità sopravvivenza». Rachael Cummings, specialista per la salute di Save the Children, riassume in poche durissime parole la quotidianità di Gaza: «La gente cerca cibo, cerca acqua». L’indispensabile a sopravvivere, appunto. Una battaglia giornaliera che nel nord è pratica estrema.

L’assedio totale imposto dall’esercito israeliano da dodici giorni è un puzzle di cecchini che sparano a vista, artiglieria e raid aerei, ospedali circondati e aiuti fantasmi. Lo ha detto ieri l’Onu: mai dal 7 ottobre 2023 si era raggiunto un simile record negativo nella consegna (mancata) degli aiuti umanitari, «le peggiori restrizioni» imposte da Israele, dice James Elder, portavoce di Unicef.

IL NORD È ISOLATO, non entrano cibo, acqua e medicine. La questione è centrale, sul piano pratico – della sopravvivenza di cui sopra – e sul piano politico. C’è quello delle autorità israeliane che, confermano alcuni soldati ad Haaretz, stanno già implementando il cosiddetto Piano dei Generali («I comandanti dicono apertamente che il Piano Eiland è promosso dall’Idf»; «Lo scopo è dare ai residenti che vivono a nord dell’area di Netzarim una scadenza per trasferirsi a sud. Dopo, chiunque rimarrà nel nord sarà considerato un nemico e verrà ucciso»).

Obiettivo, lo svuotamento di Gaza nord per creare una zona cuscinetto, che il governo a mezza bocca descrive come necessaria alla sicurezza di Israele ma che l’ultradestra – più sfacciata e priva di remore – ritiene il primo passo per una nuova fase di colonizzazione del territorio palestinese.

E poi c’è il piano esterno, diplomatico. Domenica in una lettera inviata all’esecutivo di Tel Aviv, il segretario di stato Usa Antony Blinken e quello alla difesa Lloyd Austin avevano avvertito della possibilità di limitare l’invio di armi se i camion umanitari non avessero varcato il confine invisibile tra nord e centro di Gaza. Ieri a parlare è stata l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield: «Una politica di fame nel nord di Gaza sarebbe orribile e inaccettabile e avrebbe conseguenze secondo il diritto internazionale e la legge statunitense».

La risposta, indiretta, è giunta ieri dall’esercito israeliano che fa sapere di aver autorizzato il transito di 50 camion provenienti dalla Giordania verso le zone assediate. Non si sa se e quando arriveranno, sono comunque quella goccia nel mare descritta ieri nell’ultimo rapporto di Oxfam: l’83% degli aiuti diretti a Gaza non arrivano a destinazione. L’Unrwa ha paura: siamo vicini al «punto di rottura, quando non saremo più in grado di operare».

GLI AIUTI non arrivano e il poco che c’è ha i costi folli del mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio, quello di chi i beni li ha perché se li è presi con la forza. I prezzi li ha ricostruiti l’AjLabs di al Jazeera: un chilo di cetrioli costa 150 dollari a nord, otto a sud (un dollaro prima dell’offensiva); un chilo di pomodori 180 dollari a nord, 12 a sud (prima, un dollaro); 25 chili di farina mille dollari a nord, 150 a sud (dai nove di un anno fa); il latte in polvere 85 dollari a nord e 12 a sud (costava tre dollari). Il 96% della popolazione soffre per la carenza di cibo, il 20% è alla fame.

Ieri Algeria, Francia e Gran Bretagna hanno chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza per discutere della crisi umanitaria (per mano umana) a Gaza e chiedere a Israele di garantire l’arrivo di beni salvavita. Se l’attivismo di Parigi e Londra potrebbe segnalare un mini-riposizionamento, per lo meno sul piano umanitario, manca ancora il riconoscimento di un circolo vizioso politico.

Lo vediamo ripetersi con cadenza regolare e ravvicinata da un anno, denunciato da mesi dalle organizzazioni umanitarie e dalle ong che accusano Israele di usare la fame come arma di guerra di lungo periodo: rendere Gaza un luogo inadatto alla vita, presente e futura. Nessuna via di uscita, nemmeno per Israele, denunciano sulle colonne dei quotidiani israeliani diversi analisti militari che, come Yagil Levy, definiscono strategia «senza senso» «l’idea che Gaza possa essere un campo di concentramento, dove ogni persona si muove secondo il volere d’Israele…Il 7 ottobre dovrebbe averci reso chiaro che è impossibile tenere milioni di persone sotto assedio».

INTANTO, PERÒ, il numero di uccisi a Gaza sfiorava ieri i 42.500 (più 10mila dispersi), di cui 350 uccisi nel campo profughi di Jabaliya solo negli ultimi 12 giorni di assedio. «Intere famiglie al nord sono scomparse», ha raccontato ieri Mounir al-Bursh, direttore del ministero della salute di Gaza.

E l’offensiva prosegue anche in Libano, «nuovo» fronte di guerra. Il bombardamento peggiore ha colpito Nabatieh, nel sud, otto raid aerei che hanno centrato anche il municipio: tra i 16 uccisi, c’è il sindaco Ahmad Kahi. «I soccorritori stanno cercando tra le macerie», racconta il giornalista Imran Khan dal luogo in cui pochi giorni fa a essere bombardato era stato il mercato storico cittadino, «completamente distrutto dalle fiamme».

Altri 15 gli uccisi nella cittadina di Qana e bombe anche su Beirut, poche ore dopo la richiesta degli Stati uniti a Israele: basta raid sulla capitale. In serata Unifil ha riportato di nuovi colpi sparati da un carro armato israeliano, «diretti e apparentemente deliberati» contro una postazione della missione Onu nel sud libanese: due telecamere distrutte e la torretta di osservazione danneggiata.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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