MANCANO POCHI GIORNI all’anniversario della strage, tradizionalmente fissato al 16 settembre. Fouad è intento a maneggiare un vecchio videoregistratore. «Questa – dice reggendo un nastro – è una delle poche testimonianze video che abbiamo di questo massacro. Io avevo 18 anni, mio fratello solo 10. Passano gli anni ma questa ferita continua a sanguinare».

«Non è certo l’unica», lo incalza Mohammed mostrando il braccio con le cicatrici di due proiettili ricevuti durante la Guerra dei Campi, il devastante conflitto tra le milizie sciite di Amal e i palestinesi nei campi profughi in Libano tra il 1985 e il 1988. Fouad annuisce, mostrando anche lui le sue: sono le fotografie della moglie, cittadina libanese, uccisa nel 2006 da un bombardamento israeliano mentre si trovava con i tre figli, rimasti feriti, nella casa dei genitori a Baalbek, nel nord-est del Paese, vicino al confine con la Siria.

«OGGI le persone ricorderanno questa strage in modo diverso perché quello che abbiamo vissuto sta accadendo, in scala maggiore e sotto gli occhi di tutti a Gaza – dice Mohammed -. È evidente che esiste un piano per distruggerci definitivamente. Ma nonostante tutto, non rinunciamo al nostro diritto di lottare per tornare nelle terre che ci sono state tolte».

Con l’aiuto di un bastone, Muhammad al-Khatib cammina a fatica tra gli stretti vicoli di Shatila, dove ogni angolo è adornato con immagini e slogan celebranti la resistenza armata e i leader delle diverse fazioni palestinesi. È qui che il medico originario del villaggio palestinese di Al-Khalisa, ha fondato nel 2005 il Museo della Memoria, collezionando negli anni i cimeli di famiglia dei palestinesi dei campi profughi in Libano e Siria. Ricorda perfettamente i giorni della strage. Aveva 35 anni e prestava servizio alla Mezzaluna Rossa: «Contrariamente a quanto si dice, il massacro non iniziò giovedì 16 settembre, ma il giorno prima. Il primo ferito che curai si chiamava Ala’a, ed era arrivato in ospedale poco prima delle 17 di mercoledì. I miliziani avevano radunato 40 persone e aperto il fuoco su di loro».

Il venerdì mattina, continua a raccontare al-Khatib, i falangisti avevano intercettato il segnale radio con cui l’ospedale del campo comunicava con l’esterno. Avevano iniziato a minacciare la giovane infermiera, una ragazza di soli 16 anni, descrivendo cosa le avrebbero fatto quando sarebbero arrivati. Entrarono poco dopo. Al-Khatib, riuscì a mettersi in salvo ma alla ragazza toccò la sorte che le era stata promessa: fu stuprata e uccisa assieme agli altri colleghi, mentre sul ventre le veniva incisa una croce. «Con l’età e i problemi di salute che avanzano, stavo progettando di trasferire a Venezia la mia collezione – afferma il direttore del Museo della Memoria – ma dopo il 7 ottobre ho deciso di tenerla qui. Vogliono scatenare una nuova guerra con il Libano? Che arrivino pure. Io non ho paura fino a quando ci saranno palestinesi disposti a combattere per la propria terra e il diritto a ritornarvi».

Abu Moujahed, fondatore del Children and Youth Center, storica organizzazione del campo profughi di Shatila, osserva con disappunto le sedie della stanza rimaste vuote, rivolgendosi con fermezza a chi ha occupato le altre: non tutti hanno risposto all’invito, aperto alle fazioni e alle organizzazioni del campo, di organizzare una commemorazione unitaria per la strage di Sabra e Shatila, nonostante l’urgenza dettata dal genocidio a Gaza e dalla minaccia di una nuova invasione del Paese. Chi ha deciso di presentarsi però non ha dubbi: quanto accaduto dopo il 7 ottobre ha dimostrato che il tempo della separazione e delle false promesse deve finire. «Israele non è solo una questione di territorio, ma di mentalità e decisioni politiche che influenzano il mondo – dice Abu Moujahed -. Non ci fidiamo più dei governi e delle agenzie umanitarie, che parlano di diritti umani mentre contribuiscono al nostro annientamento. Il sangue dei palestinesi è lo stesso di chi è oppresso in America Latina, in Africa e in altre parti del Medio Oriente. Siamo pronti a tendere la mano di nuovo, ma le condizioni devono cambiare. I presupposti devono cambiare».

ABU MOUJAHED RIFLETTE sulle profonde trasformazioni che hanno attraversato il campo profughi di Shatila, ora abitato da migliaia di rifugiati siriani, tossicodipendenti, lavoratrici domestiche provenienti dall’Africa subsahariana e tanti poveri espulsi dai quartieri gentrificati di Beirut. Tuttavia non teme che questi cambiamenti possano minacciare la memoria del massacro: «Non dobbiamo preservare l’identità di Shatila, ma la nostra identità di palestinesi. Non vogliamo restare qui e i libanesi non ci vogliono. Il campo è come la sala d’attesa di un aeroporto, stiamo solo aspettando di tornare a casa. Ogni bambino che arriva al nostro centro riceve un foglio su cui scrivere il nome del suo villaggio, da appendere su una grande mappa della Palestina. Tutti gli anni – prosegue – organizziamo manifestazioni e commemorazioni con le nuove generazioni. I bambini gridano per la Palestina, anche se non l’hanno mai vista. Grazie ai nuovi media, le notizie circolano velocemente. Loro osservano le reazioni dei loro genitori di fronte alle violenze dell’occupazione, alla continua ingiustizia e le fanno proprie. Finché la Palestina cresce dentro di loro, significa che cresceranno sentendosi parte di essa. E quando diventeranno adulti, sapranno come esprimere questa appartenenza e difenderla, sempre».

* Fonte/autore: Elisa Brunelli, il manifesto