Il segretario generale Guterres: «L’Onu ha fallito. Gli Usa facciano vere pressioni»

Il segretario generale Guterres: «L’Onu ha fallito. Gli Usa facciano vere pressioni»

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L’Intervista al segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres

 

Il 23 marzo 2024, di fronte al valico di Rafah, Antonio Guterres aveva confessato al mondo l’impotenza sua e dell’istituzione più alta del pianeta, le Nazioni unite. Camicia grigia, i capelli bianchi spettinati dal vento, alle spalle un valico di frontiera vuoto e a poca distanza migliaia di camion di aiuti umanitari fermi in mezzo al deserto, aveva detto che lui e l’Onu non avevano «il potere di fermare la guerra, chiediamo quindi di farlo a chi quel potere ce l’ha».
Sei mesi dopo, non è cambiato niente, anzi a Gaza la situazione è peggiorata sotto i colpi incessanti dell’offensiva israeliana. E allora il segretario generale dell’Onu in un’intervista esclusiva ad al Jazeera si è detto consapevole che «il Consiglio di Sicurezza ha sistematicamente fallito nel fermare i più drammatici conflitti, Sudan, Gaza, Ucraina», ma poi si è rivolto a un attore in particolare, gli Stati uniti, affinché facciano pressioni reali su Israele per porre fine alla guerra. «Ma – ha aggiunto, quasi rispondendo a se stesso – conosco abbastanza la politica americana per sapere che questo non accadrà».

A PROPOSITO poi della Cisgiordania, Guterres ha parlato di «occupazione illegale che deve finire», così da far nascere il futuro Stato di Palestina «con Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est». E a cui fa eco l’alto rappresentate degli Esteri per la Ue Josep Borrell: serve un nuovo «sforzo collettivo» per la pace e la soluzione a due stati. Un’idea che resiste nella diplomazia globale e in quella occidentale in particolare, che viceversa non è mai apparsa tanto surreale. Ieri la Spagna, tra i paesi che in Europa negli ultimi mesi hanno riconosciuto la statualità palestinese, ha ospitato un vertice con Norvegia e Slovenia e svariati paesi arabi e musulmani (dall’Egitto al Qatar, dall’Indonesia alla Turchia) per discutere dell’implementazione della soluzione a due stati.

NEI TERRITORI occupati, che quello Stato dovrebbero diventare, la violenza militare ha raggiunto livelli intollerabili. Nella notte tra giovedì e venerdì l’esercito israeliano si è ritirato da Tulkarem e Tubas lasciando interi quartieri letteralmente in macerie, come già avvenuto a Jenin. Dopo due settimane dall’inizio dell’operazione israeliana “Campi estivi”, il bilancio delle vittime è salito a 50 (21 a Jenin, 13 a Tubas, 12 a Tulkarem, tre a Jenin e una a Nablus), moltissimi giovani sotto i 25 anni, tanti di loro combattenti nei campi profughi.
A morire ieri è stato anche un dipendente dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, colpito da un cecchino mentre si trovava sul terrazzo della propria casa. «Si tratta della prima uccisione di un nostro membro in Cisgiordania da oltre dieci anni», ha scritto l’Unrwa su X. Non a Gaza: dei 300 operatori umanitari uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre nella Striscia, almeno 220 lavoravano per Unrwa.

IERI I RAID sono proseguiti in tutta l’enclave palestinese, con decine di uccisi. Ad al-Mawasi, fazzoletto di terra lungo la costa meridionale, zona «sicura» secondo le indicazioni dell’esercito israeliano che la colpisce comunque, è stata uccisa una famiglia di cinque membri, la Bardawil, tra loro due bambini. Nel quartiere Zeitoun di Gaza City è successo lo stesso: tre membri della famiglia Abu Zaid hanno perso la vita in un bombardamento israeliano che ha centrato la loro casa, ancora in piedi. La protezione civile ha recuperato un cadavere in un edificio nella zona orientale del campo profughi di Jabaliya, a nord.

Dall’altra parte della linea di demarcazione, in Israele, continuano le proteste di migliaia di persone perché il governo accetti l’accordo di cessate il fuoco e di scambio degli ostaggi con Hamas. Eppure il primo ministro Netanyahu non ne appare troppo scalfito: un nuovo sondaggio pubblicato dal quotidiano Ma’ariv dà il suo partito, il Likud, in salita nei consensi: prima forza parlamentare se si votasse oggi, con 24 seggi.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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