Nella santabarbara dei conti brucia la miccia elettorale

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E i mercati finanziari, ha spiegato il capo economista della banca Barclays di New York, Aaron Gurwitz, «aspettavano da giorni un pretesto per vendere titoli, correggere l’indice al ribasso e fare profitti». Eppure, dopo il panico delle prime ore del mattino a Wall Street, seguito alla parziale fusione del nocciolo nelle Borse Europee, alla fine della giornata menti più fredde e nervi più saldi hanno preso il sopravvento, riportando l’indice Dow Jones a una forte, ma non catastrofica perdita attorno all’uno per cento normale amministrazione per un mercato che da mesi aveva conosciuto di fatto solo aumenti. Nessuno dei «pro», dei grandi gestori di fondi interpellati dalla rete televisiva che tutti gli operatori guardano come all’oracolo, la Cnbc, manifestava più che un garbato scetticismo di fronte al giudizio negativo dell’agenzia di rating S&P. «Politica, è soltanto politica», si era affrettata a intervenire la Casa Bianca, per tamponare l’onda di terrore arrivata dall’Europa e se la reazione del “team Obama” è ovviamente interessata, è la stessa Standard & Poor’s a riconoscere che non sono cambiate le cifre. È cambiato, in peggio, il giudizio che gli analisti danno di una Washington che, dopo avere evitato in extremis la chiusura del governo per la mancata approvazione della legge di bilancio, la «finanziaria», ora sta cercando un compromesso sostanziale e improbabile per attaccare il mostro del debito nazionale e conciliare posizioni inconciliabili. Come già  negli anni ‘90, quando il conflitto fra i repubblicani che dominavano il Parlamento e i democratici guidati dal presidente Clinton portò alla paralisi, l’abisso fra le ricette per affrontare finalmente l’oceano rosso lasciato in eredità  da George W. Bush e allargato dagli interventi di Barack Obama, è «filosofico» come si dice negli Usa, «ideologico», come si direbbe in Italia. Sono due concezioni diverse della società  americana, del suo futuro, della responsabilità  e del ruolo dei governi, quelle che oppongono Obama al suo rivale repubblicano, il deputato del Wisconsin Paul Ryan, guida della potentissima “Commissione Finanze»” della Camera. Un “gap” che si riassume in una domanda fondamentale: chi deve pagare il conto della “Grande Abbuffata” di debiti? Il chilometro e mezzo che separa la cupola, la Camera dominata dai repubblicani di Paul Ryan dopo il trionfo del “tea party” anti stato e anti tasse, dal portico della Casa Bianca dove lavora e vive Obama, è lastricato dalle pagine dei due piani opposti per tagliare 4 mila miliardi di dollari in dieci anni. Ma se il totale è simile, i fattori sono molti diversi. Il cuore della ideologia repubblicana è una forma sottile di soffocamento e di privatizzazione della assistenza sanitaria per gli anziani, con il passaggio da pagamenti diretti a vouchers, buoni da utilizzare per pagarsi le spese mediche. La chiave del piano Obama è invece, spogliato dagli orpelli propagandistici e dalle piccole, spesso fantasiose limature di spese, un aumento delle imposte per i redditi più alti. Le accuse reciproche sono quindi comprensibilmente velenose. Per la Destra, Obama sogna la «europeizzazione» dell’America, la trasformazione in una «stagnante, agonizzante» socialdemocrazia da Vecchio Mondo. Per Obama, i repubblicani vogliono la demolizione dello stato sociale voluto da Franklin Roosevelt, tornando alla legge del più forte. Crudeltà  sociale contro sogni di una crescita, che solleverebbe tutti, secondo la celebre formula reaganiana della marea che dovrebbe alzare tutte le barche. Un compromesso, davanti a uno scontro così frontale e profondo, è difficile, ed è questo che preoccupa le agenzie di valutazione del debito, come Standard & Poor’s. I repubblicani, che avevano conquistato la Camera promettendo meno spesa pubblica, meno tasse, meno stato, non possono tradire tante fragorose promesse sei mesi appena dopo averle fatte nel 2010. Obama e i democratici non possono violare le aspettative del proprio elettorato, già  abbondantemente deluso, ad appena 18 mesi dalle elezioni del novembre 2012, verso le quali il Presidente è ormai lanciato. È il classico duello fra la forza irresistibile e l’oggetto inamovibile, un gioco nel quale uno dei due schieramenti si ritroverà  con il cerino in mano: o la riduzione della sicurezza sociale, per la quale nessuno vuol pagare, ma che la grande maggioranza vuole e brucerà  le dita alla Destra. O l’aumento delle tasse, che scotterà  Obama e i democratici. Questo, le agenzie di rating sanno e temono: che nella santabarbara del gigantesco debito americano ha cominciato a bruciare la miccia elettorale.


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