ASSANGE ha accettato un unico capo d’accusa dell’Espionage Act – quello di “cospirazione alla diffusione di informazioni sulla difesa nazionale”, punibile fino a dieci anni di reclusione – in cambio di una condanna a cinque anni, che il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha accettato come insiti nei 62 mesi già scontati in custodia cautelare nella galera di Belmarsh. Rilasciato su cauzione e accompagnato dall’alto commissario australiano per il Regno Unito, hanno fatto scalo a Bangkok per rifornire l’aereo; ieri in serata l’atterraggio nelle Isole Marianne Settentrionali, uno dei tanti territori statunitensi nel Pacifico. Oggi è prevista l’udienza nella capitale, Saipan: qui perché l’imputato non irragionevolmente non si fidava a sbarcare su suolo americano e perché siamo relativamente vicini alla nativa Australia, dove lo attendono moglie, figli, genitori. La sentenza è prevista immediatamente dopo la presentazione formale del patteggiamento. Nemmeno nel fremere di quest’ultima attesa la guardia si è abbassata: sua moglie Stella Assange invitava ieri a seguire digitalmente la traiettoria del volo nel timore che qualcosa potesse andare storto all’ultimo momento.

NON POTENDO viaggiare a bordo di un aereo di linea, si è dovuto affittare un jet al costo di 500mila dollari, anticipati dal governo australiano e che saranno poi pagati con i fondi raccolti dalla campagna di solidarietà pro-Assange. Le immagini diffuse da WikiLeaks lo mostrano di un pallore traslucido, il risultato di 14 anni di cattività, prima nei pochi metri quadrati della sede diplomatica dell’Ecuador a Londra e poi a Belmarsh, da dove ha ripetutamente contestato l’estradizione. Il mese scorso, dopo un susseguirsi di battute d’arresto, l’ultima vittoria che lasciava ben sperare: avrebbe potuto fare appello contro l’ordine di estradizione. I 157 anni di carcerazione che rischiava qualora l’isterico zigzagare di questi ultimi anni della giustizia britannica lo avesse dato in pasto agli Stati Uniti dunque si allontanano, nel sollievo di quanti vedono in Assange un giornalista al servizio della verità e non una spia al soldo del nemico.

STELLA ASSANGE ha ringraziato tutti i sostenitori in questa sfinente ma alla fine vittoriosa campagna, annunciando che il team legale di Julian chiederà comunque la grazia al presidente Biden. «Cercheremo la grazia, ovviamente, ma il fatto che ci sia una dichiarazione di colpevolezza, ai sensi dell’Espionage Act, in relazione all’ottenimento e alla divulgazione di informazioni sulla difesa nazionale è ovviamente una preoccupazione molto seria per i giornalisti», ha detto alla Reuters. Di diverso avviso l’ex vicepresidente degli Stati Uniti: Mike Pence ha fortemente criticato il patteggiamento, definendolo «un errore giudiziario».

LA NOTIZIA è giunta in gran parte inaspettata, ma è stata soprattutto la contingenza della politica americana in campagna elettorale – Trump aveva annunciato che se eletto avrebbe concesso la grazia a Assange – a rendere plausibile un tale sviluppo. È da oltre un anno, da quando in Australia si è insediato un governo laburista, che Canberra esercita pressioni in privato sugli americani per una soluzione a questa saga giudiziaria; e, da parte sua, già lo scorso aprile Joe Biden si era detto possibilista.

* Fonte/autore: Leonardo Clausi, il manifesto