I NEET, il precariato e il problema del «lavoro» oggi

I NEET, il precariato e il problema del «lavoro» oggi

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Lavorare per poter studiare. Ma in questa Italia di oggi si trovano solo occupazioni da 5-7 euro l’ora. Che cosa si sa alla fine di un percorso simile? Che senso ha?

 

Comincio ad apprezzare i Neet dopo aver letto le risposte di alcuni giovani sui sacrifici che fanno per poter andare all’Università, data la ristrettezza dei mezzi delle loro famiglie. Lavorano per poter studiare ma in questa Italia di oggi trovano solo occupazioni da 5-7 euro l’ora, costretti a orari tali per cui hanno poco tempo per studiare. Non frequentano, si presentano agli esami e finalmente ottengono il famigerato pezzo di carta. Ma che senso ha? Si chiama studiare quello? Che cosa «sanno» alla fine? Che tipo di competenze hanno accumulato se hanno visto sì e no un docente un paio di volte e hanno poco tempo per leggere?

Mi ricorda quando insegnavo a Padova, allora a Scienze Politiche la maggioranza degli iscritti era studente-lavoratore. Una bella differenza però, avevano il loro stipendio, molti dipendenti pubblici, la laurea in genere serviva solo per lo scatto di stipendio. Di certo non erano né precari né working poor. Tuttavia la situazione era assurda lo stesso, non li vedevo mai se non quando si presentavano all’esame. Allora adottai una forma di protesta – ricordo di averlo dichiarato in Consiglio di Facoltà, senza suscitare particolari reazioni.

Dicevo: «La legge permette a queste persone di non frequentare, implicitamente significa che il mio ruolo è inutile, però quando si presentano all’esame la legge pretende da me che io li giudichi, selezionando i bravi e i meno bravi, anche se è la prima volta che li vedo. Il mio ruolo dunque non è quello di insegnare ma di dare voti. Bene, io darò 30 a tutti, se il mio è un mestiere inutile, se la mia didattica non ha senso, allora va svuotato di senso pure l’esame». Qualche anno dopo mi avrebbero sospeso dall’insegnamento e cacciato dall’Università, ma questo è un altro capitolo che poco interessa.

Torniamo ai Neet. Che senso ha farsi sfruttare a 5 euro l’ora per studiare poco e male? O l’Università si fa sul serio o è inutile farla. Ma non basta. Ottenuto il famigerato pezzo di carta, quanti di quelli si troveranno di nuovo tra stage, contratti a termine, a progetto, a part-time, da interinale, a partita Iva? Quanti entreranno nella spirale della precarietà che ormai viene ritenuta una condizione di massa?

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L’ultimo rapporto Istat ha fatto rumore perché dice che è povero un italiano su dieci. La mia attenzione si è concentrata invece sui dati Istat dell’occupazione giovanile, che sembra aver subito un vero e proprio balzo in avanti tanto che i Neet, i miei simpatici Neet, sono diminuiti di un milione e qualcuno li vuole proprio sterminare con la leva obbligatoria. Però il Rapporto Istat ci dice anche che l’invecchiamento nel mondo del lavoro supera quello demografico e ci dice che la fuga all’estero continua (la Federazione degli ordini dei medici ha comunicato che nei primi tre mesi del 2024 ci sono state 500 richieste di trasferimento all’estero da parte di giovani medici, il 90% con meno di 40 anni, per le insufficienti condizioni retributive e per la cronica instabilità dei rapporti di lavoro).

Come si conciliano questi dati con l’asserito aumento dell’occupazione giovanile? L’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps ci segnala che sono in aumento i contratti a tempo indeterminato, da dicembre 2019 a dicembre 2023 ce ne sarebbero 1 milione 100 mila in più. Ma questi contratti non significano più stabilità, lavoro fisso. Lo staff leasing per esempio è considerato tempo indeterminato. Infatti, di quel milione e 100 ben 456 mila (il 41,4%) rientrano in due soli settori, costruzioni e terziario professionale, ambedue caratterizzati da progetti che si esauriscono in brevi periodi di tempo, ho il sospetto che si tratti di un fenomeno già analizzato una decina di anni fa a Milano, secondo cui le figure inquadrate con contratto a tempo indeterminato hanno un’alta mobilità. Una specie di precariato «al rialzo».

Fenomeno che a me pare coerente con i risultati di una recente ricerca, secondo la quale gli stati depressivi, dovuti a difficile adattamento all’ambiente di lavoro, i cosiddetti stati di burnout, sono in rapida crescita e si concentrano soprattutto in Lombardia. Ti licenzi, te ne vai per guadagnare qualche centinaio di euro in più o perché non sopporti più l’ambiente.

Credo sia difficile oggi dare dei giudizi «generalisti» sullo stato dell’occupazione in Italia, occorre entrare nello specifico, settore per settore, dalla logistica ai servizi professionali, dalla cura ai grandi settori industriali, molto dipende dalla dimensione d’impresa e forse ancor più dalla sua posizione all’interno della filiera. Al tempo stesso però ritengo che non ci sia tanto da sottilizzare, il tema «lavoro» con tutti i suoi addentellati è il problema numero uno oggi. E qui la responsabilità è tutta intera di una classe dirigente, imprenditoriale e manageriale, che troppo spesso ha cercato di addossare le sue colpe alla classe politica.

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C’è una vicenda esemplare che simboleggia la qualità di questa classe dirigente: la Fiat. Per una quindicina d’anni è stata oggetto di lotte operaie senza precedenti, è stata il bersaglio delle azioni più radicali, è stata al centro dell’odio di classe. Eppure, quando ha ripreso in mano la situazione nell’ottobre del 1980 era ancora un’azienda con prestigio e potere di mercato.

Sono seguiti venti anni di pace sociale e alla fine di quei vent’anni la Fiat era in ginocchio. Il disastro lo hanno creato i manager, non gli scioperi. Una classe dirigente, quella del capitale italiano, che ha dimostrato tutto il suo potere distruttivo dopo le privatizzazioni, accumulando profitti senza restituire nulla al territorio, anzi, inchiodando l’economia di un paese a una stagnazione che sembra irreversibile, dalla quale emerge, grazie ai mercati esteri, solo un ristretto numero di imprese che in termini occupazionali rappresenta meno dell’1,5% (Pietro Modiano e Marco Onado, Illusioni Perdute, Il Mulino, 2023).

A guardare come si comporta questo capitalismo nelle relazioni industriali, coinvolgendo ovviamente le filiali italiane di grandi gruppi esteri, pensando al fatto che il 50% dei contratti nazionali di lavoro è scaduto da almeno tre anni, si vede come la distribuzione della ricchezza sia un orizzonte scomparso dalla loro cultura, nemmeno quando si tratta di riequilibrare l’inflazione.
Certe volte penso che il fascismo avesse più rispetto per il lavoro di quanto ce l’abbiano oggi le rappresentanze datoriali (Confindustria, Confcommercio, Confapi ecc.), disposte al massimo a trasformare in benevole elargizioni quelli che sino a ieri erano dei diritti (il famigerato Welfare aziendale). Dunque la priorità oggi è fare fronte comune contro questo avversario, diventato così forte perché per troppo tempo è stato coccolato dalla «Sinistra».

* Fonte/autore: Sergio Fontegher Bologna, il manifesto



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