Se questa è una cifra che tutela i cittadini

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 Le trivelle hanno scavato per mesi, i tentativi si sono susseguiti, c’è stata una gara di solidarietà  internazionale. La vita non ha prezzo. E se proprio si deve discuterne, ad avere titolo ci sembrano più i filosofi e gli scrittori che non gli economisti e i tecnocrati. Quando la logica del profitto d’impresa spinge manager a non spendere per la sicurezza degli impianti la questione può diventare tema di competenza dei giudici come nel caso della storica sentenza Thyssen, che ha comminato pesanti condanne detentive e la confisca di risorse aziendali definite «il prezzo del profitto basato sul risparmio nella sicurezza» . Ma se dai casi specifici, delle singole persone in carne ed ossa, passiamo ai problemi di sistema — come definire le misure di sicurezza nei trasporti, le politiche pubbliche e i vincoli da imporre ai privati per minimizzare i rischi, ridurre le vittime di incidenti o di patologie gravi— le cose cambiano. Economisti ed esperti di statistica ci spiegano che in un mondo in cui le risorse a disposizione sono limitate, è necessario fissare parametri per stabilire quali interventi di sicurezza vanno finanziati e quali no. Analisi economicistiche che non ci portano necessariamente verso una «mercatizzazione» del valore della vita. Anzi, se esaminiamo l’esperienza americana, vediamo che le tecniche, usate da decenni, per definire un ragionevole «prezzo della vita» , sono diventate fattori di garanzia, di tutela sociale. Si tratta di calcoli e fenomeni molto complessi, ma un esempio che può aiutare a capire è quello dei parametri di sicurezza fissati per l’industria automobilistica Usa. Come fa il governo a decidere se imporre ai produttori di costruire veicoli coi montanti del tetto rinforzati in modo da proteggere meglio i passeggeri in caso di ribaltamento? Semplicemente calcolando quante vite verranno risparmiate ogni anno con un simile intervento e poi moltiplicando questo numero per il valore teorico attribuito da ogni authority federale alla singola vita. E vedendo, alla fine, se la cifra complessiva che viene così «risparmiata» è più o meno elevata dell’investimento che deve essere sostenuto dalle industrie per modificare la struttura delle loro vetture. Se il valore delle vite risparmiate è più alto, i costruttori sono obbligati a investire per adeguarsi ai nuovi parametri di sicurezza, altrimenti no. Il livello di tutela sociale, così, non dipende più dal fatto che si usino, o meno, dei parametri economici, ma dal livello al quale si assestano. Restando nel campo della sicurezza automobilistica, scopriamo che dopo il 2000 le authority federali avevano stabilito un valore della vita piuttosto basso: variabile da agenzia ad agenzia, ma sempre ampiamente inferiore ai 6 milioni di dollari, in luogo degli 8,7 (6 milioni di euro) consigliati dagli scienziati più accreditati. Durante la presidenza Bush, il dipartimento dei Trasporti aveva calcolato che coi tetti rinforzati negli Usa si sarebbero risparmiate 135 vite umane l’anno. Ma il costo dell’investimento necessario avrebbe superato di 800 milioni di dollari il valore delle vite salvate. Non se ne fece nulla. Dopo la vittoria democratica del 2008 e l’insediamento di Obama è bastato che il dipartimento dei Trasporti incrementasse il valore teorico della vita (da 3,5 a 6,1 milioni di dollari) per rendere l’investimento in sicurezza economicamente e socialmente conveniente: le case automobilistiche si sono adeguate. Certo, la questione del prezzo della vita è destinata a restare controversa, non solo per la sua spinosissima natura, ma anche perché, almeno negli Stati Uniti, un sistema basato su una pluralità  di autorità  federali indipendenti fa sì che ognuno adotti un parametro diverso per calcolare il valore di una vita: si va da metodologie piuttosto rozze (la somma degli stipendi persi per una vita troncata) a sistemi molto più sofisticati, basati sul ruolo della persona, il suo contri- buto alla famiglia e alla vita sociale. Quanto ai numeri, l’Epa, l’ente per la protezione ambientale ha appena portato il suo valore di una vita da 6,8 a 9,1 milioni di dollari, mentre la Food and Drug Administration (controlli su cibi e farmaci) è salita da 5 a 7,9 milioni. Anche i burocrati, poi, hanno un cuore (e una sensibilità  politica). Così all’interno delle agenzie federali si sta sviluppando una discussione sull’opportunità  di «pesare» in modo diverso le vite troncate in base alla causa: alcuni vogliono dare un valore più alto alle vittime del terrorismo. Altri premono per applicare un parametro molto elevato alle morti per cancro. Perché, spiegano, è una malattia lenta, con trattamenti molto costosi, ma anche un male che spaventa di più. Una malattia con un maggiore impatto sociale, tanto economico quanto psicologico. E portano, come evidenza oggettiva, uno studio degli economisti comportamentali (i meccanismi psicologici applicati all’economia che hanno fruttato un Nobel a Daniel Kahnemann) dai quali emerge che il cittadino medio è disposto a spendere di più per una polizza medica che lo copre in caso venga colpito dal cancro rispetto a un’assicurazione sanitaria generale che include anche il trattamento dei tumori. Per quanto controversa posa essere la materia, è verosimile che in futuro interventi di questo tipo diventino sempre più necessari in tutti i campi nei quali i governi hanno un ruolo di controllo o di spesa. Con gli Usa e mezza Europa fortemente indebitati fino al punto di rischiare l’insolvenza, già  oggi si è alla ricerca di tecniche per limitare spese che stanno esplodendo soprattutto nei settori più delicati: sanità , pensioni, scuola, sostegno agli anziani. In qualche caso si tratta di fare scelte comunque dolorose, ad esempio, tra varie forme di ricovero, «day hospital» , assistenza domiciliare o telemedicina. In altri si entra nel terreno minato dell’ammissione al finanziamento pubblico di terapie mediche innovative che hanno costi molto elevati rispetto al limitato numero di vite che riescono a salvare. Ne verranno fuori furibondi dibattiti a sfondo etico-religioso: gli scontri sul cosiddetto «accanimento terapeutico» sono soltanto un preannuncio di quello che potrà  avvenire. Quando, l’anno scorso, Barack Obama ha presentato la sua riforma sanitaria, la parte più radicale della destra ha approfittato degli accenni a una discussione sul finanziamento con denaro pubblico di alcune terapie enormemente costose e di efficacia limitata per accusare il presidente di voler istituire dei death panel: commissioni di burocrati col potere di decidere chi, in una platea di malati gravi, va curato e chi va, invece, lasciato morire. Anche se nella riforma non c’era traccia di questi panel, il semplice fatto di averne evocato la possibilità  ha alimentato la diffidenza degli americani per l’Obamacare. Certo, molti cittadini Usa sono geneticamente allergici a ogni ingerenza pubblica nella loro vita. Ma con le spese sanitarie che continuano a crescere rapidamente, il problema non può essere più ignorato: oggi le cure mediche assorbono il 17 per cento del Pil americano. Se non si interviene, entro pochi decenni questa quota salirà  fino alla metà  della ricchezza prodotta dal Paese: un livello insostenibile per qualunque sistema. Se, invece, ci si mette totalmente nelle mani dei privati, si può sperare in una maggiore efficienza della spesa, ma la natura etica del problema non cambia, salvo che le scelte sensibili verranno fatte da un’azienda anziché da burocrati. In America succede già  oggi: le compagnie assicurative cercano gli espedienti più diversi per evitare di pagare le cure più costose ai loro assistiti. Chi sopravvive a un tumore spesso fatica parecchio a far saldare il conto dei cicli di chemioterapia, soprattutto se la cura dura a lungo. E le compagnie fanno di tutto per non avere molti malati cronici tra i loro assicurati. Insomma, fin qui abbiamo potuto guardare alle scelte chiave della vita quasi solo con la lente etica, anche perché eravamo convinti di vivere in un mondo di risorse infinite e di crescita perenne. Ora che quel mondo è andato in frantumi, si deve cambiare rotta, magari ricorrendo anche a un sistema di prezzi più o meno teorici per scegliere tra le varie alternative possibili. Alla base di questi processi di selezione, fin qui utilizzati soprattutto per valutare gli investimenti pubblici, ci sono varie tecniche economiche, prima fra tutte la cosiddetta «analisti costi-benefici» , che consentono di confrontare, sulla base di vari parametri, gli interventi possibili, individuando quelli più efficaci. L’analisi costi-benefici è stata sviluppata soprattutto dagli accademici delle università  americane e ha registrato la maggior diffusione, nell’ultimo mezzo secolo, nel mondo anglosassone. Il maggior esperto vivente, quello al quale più spesso si rivolgono le agenzie federali di Washington, è Kip Viscusi della Vanderbilt University, un professore americano la cui famiglia è originaria di un paese vicino Caserta. E, a proposito dell’Italia, queste tecniche dovrebbero trovare un campo d’applicazione particolarmente fertile proprio nel nostro Paese, dove la spesa pubblica assorbe più della metà  del reddito nazionale. E dove da anni tutte le scelte sono condizionate dal volume di un debito ai limiti della sostenibilità . Come decidere se effettuare un investimento colossale come quello del ponte sullo Stretto di Messina, se non sulla base di una seria analisi costi-benefici? Be’, le cose non sono date così: i tentativi di introdurre queste tecniche nel nostro sistema, avviati alla fine degli anni 70 del Novecento, sono finiti nel nulla. «Altro che costi-benefici» sbuffa Tito Boeri, economista della Bocconi. «Da noi quando un’amministrazione vara un progetto, spesso non si fa più nemmeno l’analisi finanziaria. Efficienza, redditività  di un investimento, sono vincoli che la politica non vuole avere. I criteri sulla base dei quali si fanno le scelte sono altri. Quando, l’anno scorso, gli economisti de «LaVoce. Info» hanno provato a misurare il costo economico della mancata riunificazione di tutte le votazioni in un unico election day, sono stati non solo criticati, ma addirittura sbeffeggiati. Quanto alla misurazione del valore economico di una vita, non mancano valide tecniche di analisi. Ma nessuno ha davvero il coraggio di addentrarsi in questo campo: si teme l’accusa di seguire un approccio disumano» . Basare investimenti e interventi per la sicurezza su parametri di efficienza e convenienza economica: sembrano scelte liberiste che ignorano ogni imperativo di solidarietà  sociale. Ma non è così, come prova l’esempio, appena citato, della sicurezza automobilistica. Se proviamo ad esaminare un po’ più in profondità  il caso degli Stati Uniti, dove il valore della vita è un parametro usato in modo sistematico da molte agenzie federali, scopriamo che in queste tecniche non c’è nulla di disumano. Anzi, se applicate correttamente, portano a un livello di investimenti per la protezione della collettività  talmente elevato da produrre una specie di capovolgimento di fronte: oggi in America a diffidare degli economicismi dell’analisi costi-benefici non sono più ambientalisti e sinistra sociale, ma gli iperliberisti della United States Chamber of Commerce, la più potente lobby imprenditoriale. Fino a ieri si battevano per avere parametri oggettivi per tenere a bada la politica e come garanzia di efficienza degli interventi della pubblica amministrazione. Ma ora che quei parametri, modellati per difendere la vita umana, impongono al settore privato maggiori investimenti in sicurezza, molte imprese lamentano i vincoli eccessivi, l’insopportabile aumento dei costi e auspicano il ritorno all’antico: un mondo di scelte politiche discrezionali che le imprese possono condizionare con un’attività  lobbistica che negli ultimi anni, a Washington, ha assunto un peso crescente. Le scelte fatte dall’amministrazione Obama hanno alla fine innescato un dibattito politico anche in questo campo piuttosto arido col «New York Times» che ha difeso l’uso dei parametri, mentre la rivista «The National Interest» ha obiettato che, se bastasse un coefficiente numerico per definire il valore di una vita, l’America non avrebbe dovuto spendere più di 26 miliardi di dollari (gli 8,7 milioni a testa suggeriti da Viscusi moltiplicati per le tremila vittime degli attacchi terroristici) per prevenire un altro 11 settembre. «Artifici di chi non vuol capire» sorride il professore della Vanderbilt. «A parte il fatto che la lotta al terrorismo ha un valore che va molto al di là  del dato economico, è chiaro che qui le tecniche di analisi devono tener conto di tutto quello che è avvenuto dopo le Torri Gemelle, compreso il costo di due guerre» .


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