Il golpe puritano di Pisanu e Veltroni

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Il viaggiatore non sa rispondere. La stessa domanda ce la poniamo da tempo anche noi, sebbene essa si sia notevolmente ridotta negli ultimi mesi. Ridotta, ma ancora consistente nel Paese e in Parlamento. Come si spiega? La risposta è contenuta in due diverse narrazioni di quanto accade in Italia, inconciliabili tra loro. Il Paese è dunque irrimediabilmente spaccato in due parti che non comunicano? In realtà  il Paese è diviso in tre parti e la terza è composta da chi ha perduto ogni interesse ad occuparsi di questo problema. La situazione è dunque terribilmente seria: stasi economica, isolamento in Europa, Paese diviso in tre parti quantitativamente equivalenti. Una palude, con i miasmi e i malanni d’ogni palude. Di qui una seconda domanda: come uscirne? * * * Pisanu e Veltroni hanno indicato un modo: un nuovo governo sostenuto da tutti coloro che in Parlamento e nel Paese vedono i rischi di questo agitatissimo immobilismo e decidono di uscirne unendo le forze per riscrivere insieme le regole provocando una «discontinuità » rispetto a quanto finora è accaduto. La parola «discontinuità » significa politicamente una rottura con la situazione attuale. Che l’abbia pronunciata Veltroni non è una notizia ma che l’abbia scritta e firmata Pisanu, senatore del Pdl e presidente della Commissione antimafia, questa sì, è una notizia. Nel lessico dei seguaci dell’«Amor nostro» probabilmente sarà  definita un «golpe» o almeno un para-golpe o un proto-golpe. Non Badoglio, ma Pisanu. Che cosa ne pensano i poteri forti? Che cosa ne pensa la Chiesa? Ci vuole una premessa, per quanto ovvia, in questi tempi di vistosa confusione lessicale: la discontinuità  non può aver luogo senza che emerga una maggioranza parlamentare diversa da quella attuale. E un’altra premessa: qualora quella nuova maggioranza emergesse, spetterebbe al presidente della Repubblica decidere se dar luogo ad un nuovo governo senza por fine alla legislatura oppure consultare il corpo elettorale. Nel 1994, quando la Lega decise di ritirarsi dal governo passando all’opposizione dopo appena cinque mesi di esperimento, la legislatura continuò fino al ’96. L’ossessione del ribaltone ancora non c’era per la semplice ragione che costituzionalmente il cambiamento di alleanza da parte di un gruppo parlamentare è pienamente legittimo e rientra nella normale dialettica democratica. Del resto in questa legislatura di ribaltoni ne sono già  avvenuti parecchi: Fini è stato cacciato dal Pdl ed ha formato un partito che si è dissociato dalla politica del governo; alcuni parlamentari che l’avevano seguito hanno poi cambiato opinione tornando nel partito d’origine; altri parlamentari eletti con partiti di opposizione hanno varcato la soglia e sono passati con la maggioranza. Nessuno ha invocato la fine della legislatura per questo motivo. * * * Esaurite le premesse procediamo con l’analisi delle forze in campo. Gli imprenditori, i rappresentanti dei lavoratori, la gerarchia cattolica, i movimenti ecclesiali, l’opinione laica, gli interessi e i sentimenti del Nord, gli interessi e i sentimenti del Centro-Sud. La Confindustria reclama da tempo una politica orientata verso la crescita della domanda, dell’occupazione, degli investimenti e dei consumi. Tanto più urgente in una fase di crescente inflazione globale, di aumento del tasso di interesse e di un tasso di cambio dell’euro che penalizza fortemente le esportazioni. Negli ultimi tempi questa posizione della Confindustria si è radicalizzata, con l’adesione pressoché unanime delle imprese grandi, medie e piccole. Queste ultime finora avevano considerato con favore e speranza le promesse berlusconiane, ma negli ultimi tempi le speranze sono appassite e il favore è venuto meno. Analoghi mutamenti sono avvenuti nell’ampio settore delle costruzioni (Ance) e nelle organizzazioni dei commercianti e degli artigiani. Gli interessi di queste categorie sono penalizzati dalla politica del rigore senza crescita. Ciò non vuole necessariamente significare che le intenzioni di voto di queste categorie siano cambiate; la paura dei «comunisti» e degli immigrati gioca in favore della continuità  politica e non della discontinuità . Ma quando è leso l’interesse, la tenuta ideologica diventa friabile e può favorire il mutamento delle intenzioni di voto soprattutto in favore dell’astensionismo. Per quanto riguarda le forze del lavoro, il ragionamento è analogo salvo l’assenza di elementi ideologici. Sono molti i lavoratori e i pensionati che passarono da sinistra a destra nelle scorse occasioni elettorali, sedotti dalle promesse e dalle capacità  seduttive di quella vera e propria macchina di voti che è il Grande Comunicatore. Ma il problema dei «comunisti» per loro non si pone e quello della sicurezza anti-immigrazione ha un peso assai minore rispetto ad altri ceti. Il problema dei lavoratori è il lavoro. Se manca o si devalorizza gli effetti prima o poi si vedono e infatti cominciano a vedersi. Il Sud è terra incognita per un motivo evidente: è la parte del Paese socialmente meno strutturata. La classe dirigente locale è sempre stata «ballerina», il lavoro difetta, l’iniziativa imprenditoriale è scarsa, il credito di difficile accesso, le infrastrutture sono miserevoli e i trasporti ancora peggio. Dove manca il radicamento degli interessi suppliscono radicamenti alternativi: la clientela, le organizzazioni malavitose. Aumenta l’emotività  e contemporaneamente l’indifferenza politica. Il combinato di questi elementi rende appunto incognita la risposta politica meridionale anche se l’opinione pubblica strutturata (quel poco che esiste) è particolarmente reattiva allo sradicamento sociale e quindi molto sensibile all’etica pubblica. Può sembrare un paradosso ma è proprio nell’ambiente sociale più degradato che il desiderio di un’etica pubblica più rigorosa ed un salto di qualità  nell’efficienza e nell’innovazione si manifestano con maggiore intensità . Questa apparente contraddizione va guardata con particolare cura dalle forze politiche che puntano sulla discontinuità . * * * Il Nord invece non è terra incognita. Gli interessi sono ben radicati ed anche l’ideologia. Il nordismo è ormai un modo di pensare e di sentire che accomuna le genti della grande pianura dove scorre il Po, la stella cometa che ha la sua testa tra Varese Milano e Bergamo e la coda luminosa che s’irradia fino a Udine e Treviso da un lato e Mantova Ferrara e Rimini dall’altro, fino alle propaggini della costa adriatica marchigiana. Ci sono differenze e rivalità  in questa ampia superficie che produce il sessanta per cento del reddito nazionale e ospita il quaranta per cento della popolazione, ma coincidono le priorità : libera impresa, regole al minimo livello, investimenti pubblici e infrastrutture come prima scelta dello Stato, Comuni e Regioni fiscalmente e istituzionalmente autonome, ricchezza reinvestita sul territorio, immigrazione condizionata all’offerta di lavoro. La Lega costituisce il cemento e fornisce l’ideologia, ma non è esportabile, perciò la sua compromissione con il governo nazionale non è popolare. La condizione ideale del leghismo è il federalismo inteso come confederazione. Il nordismo confederato rappresenta una metà  degli abitanti di quei territori e molto meno della metà  dei giovani. I giovani sono sempre più cosmopoliti e sempre meno attratti dalle patrie, grandi o piccole che siano. Non amano la ghettizzazione né le tradizioni. Vogliono successo, ricchezza, competizione e cultura. Sono propulsivi e dinamici. Il mito di Pontida non è cosa loro, Bossi e Calderoli non sono i loro punti di riferimento. Forse il Berlusconi giovane sì, quello di oggi non più o sempre meno. Se si aggiunge che la Chiesa è entrata nell’ordine di idee che la palude attuale non sia giovevole né ai suoi valori né ai suoi interessi, il quadro complessivo sembrerebbe favorevole ad un’evoluzione che privilegi la discontinuità  rispetto al presente e pericolante assetto. Ma a questa salutare evoluzione fa ostacolo una difficoltà  non da poco ed è una natura molto diffusa nella nostra gente. Francesco De Sanctis ne parla a lungo in un suo saggio e definisce quella natura come l’uomo del Guicciardini perché fu appunto lo storico fiorentino che meglio di tutti ne fece il racconto. Lo fece nelle «Historiae fiorentinae» e nei «Ricordi». Ma valeva ancora, quel racconto, tre secoli dopo, quando ne parlava De Sanctis nelle sue lezioni all’Università  di Napoli. Purtroppo vale ancora oggi. «Mancava la forza morale; supplì l’intrigo, l’astuzia, la simulazione, la doppiezza. Ciascuno pensava al proprio particulare sì che nella tempesta comune naufragarono tutti. La consuetudine nostra non comportava che s’implicassi nella lotta tra i principi, ma attendesse a schierarsi, ricompagnandosi con chi vinceva secondo le occasioni e le necessità . Noi abbiamo bisogno di intrattenerci con ognuno de’ potenti e mai fare offesa ad alcun principe grande». E il De Sanctis così conclude questa lunga citazione guicciardiniana: «Non c’è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questo marchio che ne impedisce la storia. L’uomo del Guicciardini lo incontri ancora ad ogni passo; ci impedisce la via se non avremo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza». È un obiettivo da puritani? Oppure la condizione necessaria per far vivere una società  moderna dove libertà  e giustizia siano equilibrate e consentano di affermarsi al merito onestamente guadagnato?


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