Cisgiordania. «È Jenin ma sembra Gaza», macerie e arresti di massa

Cisgiordania. «È Jenin ma sembra Gaza», macerie e arresti di massa

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72 ore di invasione, 12 uccisi. Un ragazzino colpito dentro l’ospedale, case saccheggiate, uomini spogliati. Voci dal campo profughi della città cisgiordana: «Non c’è più cibo, elettricità e acqua. Non si entra e non si esce. Questa volta è la peggiore»

 

È Jenin, ma sembra Gaza. Recitavano così ieri tanti post sui social, didascalie ai video e alle foto che provavano a raccontare gli ultimi tre giorni del campo profughi della città cisgiordana. Case bruciate o in macerie, strade distrutte, macchie di sangue sul selciato, dodici uccisi in 72 ore.

E uomini, giovani e adulti, seminudi in ginocchio a terra o in marcia con gli occhi bendati, legato l’uno all’altro con il primo costretto a tenere in mano una bandiera israeliana. Sono alcuni dei 500 palestinesi arrestati casa per casa da martedì, primo giorno di invasione. La maggior parte, 400, sono stati rilasciati dopo ore di interrogatori, gli altri restano in carcere.

«Questa volta è la peggiore». Haya vive nel campo, è una delle decine di donne che partecipano al progetto Aowa. Distillano piante officinali e con gli oli essenziali producono sapone dai mille odori. «I soldati sono brutali, più del solito».

JENIN NON HA PACE da mesi, anni. Ma dall’incoronazione del governo più di destra della storia di Israele, i raid sono diventati più violenti e frequenti. Jenin è la città che sconta il più alto numero di uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre (78 su 289), quella in cui per la prima volta si sono visti raid aerei con i droni.

E quella in cui i bulldozer entrano e sradicano tutto quanto trovano davanti, a partire dai simboli del campo, un luogo poverissimo che ospita migliaia di rifugiati della Nakba ’48: il cavallo costruito con i resti delle ambulanze distrutte nei giorni terribili dell’invasione del 2002, il memoriale alla giornalista di al Jazeera Shireen Abu Akleh, l’arco che segnava l’ingresso nel campo e che provava a infondere speranza a chi ci viveva dentro, «Jenin Camp, una stazione di attesa del ritorno», recitava la scritta su in cima.

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Nel pomeriggio di ieri i soldati hanno iniziato a uscire. Poche ore prima avevamo parlato con il giornalista Mohammed Ateeq: «Sono a centinaia. Ieri notte hanno ucciso tre persone, avevano tra i 15 e i 25 anni. I bulldozer hanno distrutto strade e infrastrutture. Hanno demolito o fatto saltare in aria dieci case. Ogni bulldozer è scortato da tre o quattro jeep militari».

Come accaduto a novembre, nel mirino è finito l’ospedale di Jenin, a ridosso dei vicoli stretti del campo: «I soldati sono anche intorno all’ospedale – continua Ateeq – Fermano e controllano tutti quelli che passano, perquisiscono persone e ambulanze».

È QUI, nel Khalil Suleiman Hospital che ieri un cecchino ha ucciso un ragazzo di 17 anni, Musa Ahmed Musa Khatib, disarmato. Lo denuncia Medici senza Frontiere su X. Che aggiunge: «I militari israeliani hanno fermato le ambulanze, i paramedici sono stati costretti a uscire, spogliarsi e inginocchiarsi a terra. Dal 7 ottobre vediamo l’esercito israeliano sparare all’ospedale, lanciare lacrimogeni dentro l’ospedale, umiliare e vessare lo staff medico e ora uccidere dentro l’ospedale».

Tre giorni di inferno, con interi quartieri senza cibo né acqua e feriti per la strada che le ambulanze non potevano raggiungere. La risposta dei palestinesi del campo sono le barricate: i cassonetti dell’immondizia e i fuochi sono stati usati per chiudere i vicoli alle jeep, mentre i ragazzini partivano con le sassaiole. I gruppi armati hanno usato i fucili.

«Dentro l’area militare designata dall’esercito – conclude Ateeq – hanno staccato acqua ed elettricità. I tecnici del comune hanno provano a riallacciare la corrente, è più semplice. Con l’acqua è più difficile, i bulldozer hanno sradicato le condutture».

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Di fatto, Jenin è circondata. Muoversi è quasi impossibile: «In pochi riescono a usare strade alternative, piccole e nascoste, per recuperare cibo, pane o per raggiungere i villaggi in periferia. Le strade principali sono bloccate, è pericoloso muoversi, i soldati sparano».

«Nessuno è autorizzato a entrare nel campo, nemmeno le ambulanze – ci dice Gadheer, ingegnere – Le famiglie hanno bisogno di cibo, di latte per i bambini. Ma nessuno è autorizzato a entrare, nemmeno la Mezzaluna rossa. E nessuno è autorizzato a uscire. Chi lo fa, si espone ai cecchini».

HAYA ha provato a chiamare un’ambulanza per un giovane ferito di fronte alla sua casa, ma i soccorsi non sono arrivati. «Due giorni fa ho contattato la protezione civile perché portasse il latte a mio figlio. Non possono entrare. Anche i miei vicini sono bloccati». Una piccola prigione che nei primi giorni di invasione ha assistito a perquisizioni casa per casa.

Centinaia di abitazioni da cui sono state prese cinquecento persone. Gadheer ci invia foto di quel che rimane dopo i raid, porte distrutte, armadi distrutti, cucine distrutte, i vestiti e gli effetti personali gettati a terra: «Distruggono tutto, hanno anche confiscato il cibo dai frigoriferi». Ad Haya per qualche ora hanno arrestato anche il marito. È stato rilasciato ieri. Come Ahmed Tobasi, direttore artistico del Freedom Theatre, lo spazio più vicino a un’idea di libertà che il campo di Jenin conosca. Restano in cella il direttore Mustafa Sheta e l’attore Jamal Abu Joas.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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