Massimo Carlotto. «Nel Nordest, Berlusconi fu l’eroe del capitalismo immorale»

Massimo Carlotto. «Nel Nordest, Berlusconi fu l’eroe del capitalismo immorale»

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Parla lo scrittore padovano che ha pubblicato lo scorso anno «Il francese» (Mondadori), l’ultimo di una trentina di romanzi cui si aggiungono altrettanti racconti usciti fino ad oggi. «Il Cavaliere fu accolto con entusiasmo perché negli affari legittimava i comportamenti “al limite”. Ma il blocco sociale che ha definito si basa anche sull’immaginario». «Il noir serve per raccontare la realtà. Ma, alla nostra sconfitta, non tutti i miei personaggi si rassegnano»

 

In passato ha parlato del noir come «nuovo romanzo d’inchiesta», in grado di indagare le profonde contraddizioni della nostra società, ma da tempo i confini dei generi vanno stretti a Massimo Carlotto, uno degli scrittori italiani che meglio hanno descritto, a partire dalla realtà del Veneto, le trasformazioni dell’Italia attraversata dal vento del berlusconismo. Carlotto che nel 1995 debuttò con la prima indagine di Marco Buratti, l’ex carcerato diventato investigatore privato (La verità dell’Alligatore, e/o), ha pubblicato lo scorso anno Il francese (Mondadori), l’ultimo di una trentina di romanzi cui si aggiungono altrettanti racconti usciti fino ad oggi.

Il suo lavoro di scrittore si è svolto lungo l’intero trentennio che ha segnato la traiettoria politica di Berlusconi. Quali gli elementi distintivi di questa stagione?
Il berlusconismo ha letteralmente contaminato, come un’infezione, il territorio che rappresenta il mio osservatorio privilegiato sulla società, il Veneto. Qui, come nel resto del Paese, Forza Italia nacque da Fininvest, da figure come Giancarlo Galan (già Presidente della Regione Veneto, più volte ministro, uscito di scena dopo lo scandalo Mose, ndr) che ha incarnato un modo di concepire la politica estremamente spregiudicato. Da queste parti Berlusconi fu accolto con entusiasmo perché legittimava i comportamenti «al limite» negli affari intorno ai quali si è andato definendo un vero blocco sociale. È questo che mi ha colpito fin dall’inizio: il cambiamento economico, ma anche il cambiamento della politica, la fine dei vecchi partiti e la nascita di qualcos’altro che emergeva da un intreccio tra imprenditoria, finanza e politica.

In questo senso, lei ha parlato del Nordest come di «un laboratorio del capitalismo immorale»…
Senza dubbio, si è costruito un blocco sociale in termini politici, economici, ma anche sul piano dell’immaginario. E questa è stata la mossa decisiva. Infatti, a quasi trent’anni di distanza, in Veneto quel modello resta largamente vincente, anche se a dargli voce non è più il partito di Berlusconi ma magari la Lega.

Si discute della capacità della «nuova politica» di costruire un proprio storytelling, una «narrazione» seducente, quella sorta di romanzo che lo stesso Berlusconi aveva costruito intorno a sé.
Si è trattato di un fenomeno di grande importanza. L’Italia non era preparata a tutto ciò. E soprattutto non lo era la sinistra che, non a caso, si è a lungo arroccata nell’antiberlusconismo cercando di parare i colpi invece di trovare un percorso alternativo. E questa narrazione ha costituito un paradigma che ha continuato a funzionare, e a produrre esiti simili, anche quando la figura del Cavaliere ha cominciato ad appannarsi: il cosiddetto centrodestra si è andato definendo unitariamente proprio a partire da tale immaginario a lungo veicolato dalla tv, non solo i canali Mediaset ma una rete molto fitta di piccole emittenti locali che hanno diffuso i medesimi contenuti.

In molti suoi romanzi, come «Niente, più niente al mondo» (2004), emerge il ruolo della tv come unico riferimento, spazio simbolico, schermo in cui ci si può specchiare di una società in frantumi.

Certo, e per molti è anche l’unico rifugio. Il segnale che è arrivato è: state a casa a guardare la tv e starete bene. Un discorso che oggi si potrebbe ampliare al ruolo delle serie tv e delle piattaforme dell’intrattenimento, ma che, restando alla tv, resta decisivo. Dagli anni ’90 la tv ha svolto un ruolo fondamentale nel rispondere a bisogni che non trovavano altra collocazione – le piazze che si svuotavano e via dicendo. Si è costruito così quello strato «ideologico» su cui si basa l’attuale centrodestra e che, non a caso, risulta così difficile da scalzare.

Nei suoi romanzi degli ultimi anni emerge una visione particolarmente cupa che lascia poco spazio alle alternative: il mondo annunciato dal berlusconismo corrisponde alla realtà in cui viviamo?
Per molti versi si. Mi spiego: nel noir, indagare il crimine rappresenta una scusa per osservare e raccontare la realtà. E se mi guardo intorno oggi, a partire dal Veneto, vedo che quello che un tempo si temeva – l’avvento sistematico del caporalato, uno sfruttamento selvaggio, il razzismo, i problemi relativi alla casa, alla sanità… – è diventato la nostra quotidianità. E il mio compito è raccontare tutto ciò. Quindi oggi racconto la sconfitta, ma attraverso personaggi che sconfitti non si sentono e che cercano perciò ancora una strada per uscire da questa situazione.

L’«età del Cavaliere» è stata dominata da una costante proiezione predatoria nei confronti delle donne. Con Marco Videtta ha firmato una serie di romanzi, «Le vendicatrici», nei quali le protagoniste sembrano pareggiare i conti. Questo il senso di quelle storie?
Assolutamente. Credo che il portato dell’attacco del berlusconismo nei confronti dell’universo femminile sia stata una delle pagine peggiori di questi anni. Il Cavaliere ha affermato un modo di guardare al mondo delle donne che ha poi, ancora una volta, influenzato e definito l’intero centrodestra. Da questo punto di vista temo che abbiamo sottovalutato il progetto ideologioco di Berlusconi e che non abbiamo misurato fino in fondo l’orrore che andava emergendo dietro al berlusconismo.

* Fonte/autore: Guido Caldiron, il manifesto



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