L’economista Marazzi: «Le banche centrali hanno paura del contagio delle lotte»
L’economista Christian Marazzi, autore di numerosi libri di critica del capitalismo finanziario, sull’aumento dei tassi di interesse della Bce e della Fed: “Proteggono i super-profitti e contrastano una resistenza che cresce. L’interpretazione dell’inflazione è sbagliata. Non c’è una spirale con i salari, ma una creata dai profitti. Una strategia anche a costo di andare contro gli interessi del capitale. come si è visto dal crac della Silicon Valley Bank. E c’è l’ipotesi che si sia innescato un nuovo ciclo di lotte nella crisi”
Christian Marazzi, economista, autore di numerosi libri di critica del capitalismo finanziario e professore alla scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi), in questi mesi sta scrivendo un diario della crisi per i siti Effimera, Machina e El Salto. Cosa significa la decisione della Banca centrale europea (Bce) di aumentare il tasso di interesse di 50 punti base?
È un segnale che non vogliono cedere al ricatto del mercato che vuole l’abbassamento dei tassi di interesse. E stanno ribadendo la propria determinazione nella lotta contro l’inflazione. Questo vale anche per la Federal Reserve (Fed) negli Stati Uniti. Non assecondano il mercato finanziario in una situazione del genere, ma avvallano la crisi. E cercano di esorcizzarla attenendosi a una strategia che hanno predefinito.
È corretta l’impressione per cui da un anno e mezzo le banche centrali e tutti i governi abbiano sbagliato l’interpretazione del significato dell’inflazione?
Sì. L’insistenza nel combattere l’inflazione con politiche monetariste tutte incentrate sul volume dell’offerta si spiega come una lotta preventiva, nella migliore delle ipotesi, contro una possibile spirale tra i salari e i prezzi che però non esiste, come dimostrano i dati a disposizione. In realtà stiamo assistendo a un’inflazione dovuta a una spirale prezzi-prezzi, viene cioè dall’accumulazione dei giganteschi profitti accumulati dalla pandemia in poi. La testardaggine dei banchieri centrali è dettata da una politica che vuole proteggere questi profitti ed è nei fatti contraria a una resistenza operaia e del lavoro in aumento dal 2022. L’anno scorso c’è stato un aumento del 52% del numero di interruzioni del lavoro rispetto al 2021, con il 60% in più di lavoratori che hanno partecipato alle proteste. Se confrontato con il periodo fordista, si può avanzare l’ipotesi che si sia innescato un ciclo di lotte sociali che sembrava irripetibile dagli anni 1980 quando è iniziata la controrivoluzione liberista.
Di cosa hanno paura?
Non solo del contagio della crisi finanziaria, ma di quello della crisi sociale. E reagiscono. Anche a costo di andare contro gli interessi del capitale.
Addirittura?
Sì. Altrimenti non si spiega la crisi della Silicon Valley Bank. Il rialzo dei tassi di interessi sta facendo saltare il comparto del capitale di rischio, la base del capitalismo digitale dove sembrava aver trovato l’Uovo di Colombo. L’aggressività della politica monetaria della Fed non colpisce solo i salari reali ma si ripercuote sui buoni del tesoro a dieci anni, cioè quelli che la banca aveva acquistato perché davano un rendimento modesto, ma superiore ai tassi vicino allo zero com’erano prima. L’uscita dalla crisi pandemica ha significato la ripresa delle attività con spese keynesiane che hanno rilanciato la domanda e i consumi. Negli Usa ha fatto ripartire l’inflazione ed ha allertato le autorità monetarie che hanno avviato una politica restrittiva. Il passaggio dal Quantitative Easing al Quantitative Tightening non poteva che lasciare feriti sul campo.
A quale gioco stanno giocando?
Le politiche della Fed non sono penalizzanti solo dal punto di vista del costo del denaro che impatta sui salari, o sulla fiducia dei mercati. Questo è un tentativo di ristabilire l’egemonia del dollaro in una situazione globale in cui principalmente la Cina sta disinvestendo dal debito americano per diversificare il portafoglio. Gli Usa non sopportano l’idea che il dollaro cessi di essere la valuta privilegiata. Ciò permette di sostenere un debito pubblico molto elevato per gli investimenti sull’Inflation Reduction Act di Biden o alla spesa militare per finanziare la guerra in Ucraina. Il debito pubblico deve essere governabile e, per esserlo davvero, è necessario che la politica monetaria contrasti la de-dollarizzazione. Il dollaro è il 58% delle riserve valutarie del mondo, tre volte l’Euro. Il rischio però c’è.
Cosa può succedere in Europa?
Qui l’inflazione viene in gran parte dall’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche. L’Unione Europea ha un serio problema di definizione delle linee strategiche nel settore digitale e energetico. Ed è frenata dalle sue tensioni interne che oscillano tra un approccio più legato ai finanziamenti privati che a quelli pubblici. Per ora non c’è una chiarezza sulle priorità da dare a queste strategie nel campo dei semiconduttori o sulle start up. Per di più è in corso la guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa e ciò la spinge a guardare agli Usa per il gas liquefatto e per le armi. L’Europa rischia di uscirne con le ossa rotte se arriva un’altra crisi.
Sono in corso le trattative per ristabilire il patto di stabilità ma la Germania frena. Perché vogliono tornare alla normalità in una situazione così incerta?
Queste tensioni sul ritorno “flessibile” ai criteri di Maastricht si spiegano con il fatto che questo è praticamente l’unico modo che hanno di disciplinare i paesi membri, tra l’altro discriminando tra i paesi. È noto che Francia e Germania abbiano sforato questi parametri. È un problema di governance in un continente che non è unito. L’unico momento in cui c’è stato uno slancio di solidarietà è stato con la mutualizzazione dei debiti durante la pandemia, salvo poi tornare alla vecchia musica. C’è un problema di un vuoto di potere che vuole essere riempito con criteri del tutto artificiali che hanno una forte valenza disciplinare.
Ciò non aumenta i rischi di nuove crisi?
Ne sono convinto. La crisi è la forma stessa di esistenza dell’Unione Europea. La sua è una governance a mezzo di crisi e attraverso le crisi.
E l’Italia?
È in una situazione delicata. È in difficoltà sia per la decisione di stringere i rubinetti del credito da parte della Bce che dalla rinnovata cautela sulla solidità del suo enorme debito pubblico. Potrebbe tornare ad essere un’osservata speciale da parte dei mercati finanziari.
Davanti a simili rischi le sembra che il governo Meloni sia attrezzato?
La Banca d’Italia si sta comportando in un modo positivo e sta cercando di dare i segnali giusti a un governo attraversato da tensioni non da poco. Intanto sulla guerra Forza Italia non mi sembra che vada nella stessa direzione dell’atlantismo. Sulle politiche pubbliche c’è più che altro una volontà di reprimere il reddito sociale e non di garantirlo. Le diseguaglianze aumenteranno in nome di un rilancio liberista sugli investimenti privati.
Cosa può scuotere un paese apparentemente pacificato?
Mobilitazioni sindacali e sociali in difesa di una migliore redistribuzione dei redditi, del reddito di cittadinanza o sulla riforma fiscale. Qualcosa che contrasti con le scelte austeritarie che il governo ha già abbozzato nella prima legge di bilancio. Anche se poco si muove oggi, ci potrebbero essere risposte a problemi globali non creati in Italia.
* Christian Marazzi è autore, tra l’altro, di: Il posto dei calzini (Casagrande-Bollati Boringhieri 1999, Casagrande 2021), E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998); Capitale e linguaggio. Ciclo e crisi della new economy (DeriveApprodi, 2002); Finanza bruciata (Casagrande, 2009); Il comunismo del capitale (Ombre Corte, 2010); Diario della crisi infinita (OmbreCorte, 2015); Che cos’è il plusvalore? (Casagrande, 2017).
Fonte/autore: Roberto Ciccarelli, il manifesto
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