Congresso CGIL. Viaggio tra i delegati, dove c’è vita e futuro
Alto Lazio, Piemonte, gli edili laziali e poi l’assise nazionale della Fillea, la Flc della scuola, i pensionati dello Spi: sei luoghi di discussione ed elaborazione vera
Quando si è a un passaggio d’epoca come siamo noi, c’è bisogno di guardare ed ascoltare. Cerco di farlo, e vado annusando dove posso, perché ho paura, altrimenti, di non saper più parlare. E così per la prima volta ho seguito eventi di cose che avevo visto da vicino solo nei loro momenti apicali. Parlo adesso dei sindacati, i cui congressi nazionali avevo certo sempre seguito, mai quelli locali e di categorie diverse dai metalmeccanici. Del sindacato, del resto chi come me non è sindacalista, incontra spesso i suoi dirigenti, ma difficilmente i suoi militanti, almeno adesso che non si usa più andare a volantinare ai cancelli delle fabbriche. È persino con curiosità che, ora che ne ho seguiti sei e sono stata a sedere accanto a 5-600 delegati ogni volta, ho riscoperto un pezzo di società che non incrociavo più. Sì, proprio i lavoratori e le lavoratrici.
Ho cominciato col congresso Cgil dell’alto Lazio, ma era quello che conoscevo meglio, perché è lì che si è riusciti a costruire, grazie anche a una fantastica segretaria della zona, una rete intessuta con soggetti diversi, ambientalisti, studenti, il presidente del porto, persino imprenditori locali; e dove, proprio per questa precoce incarnazione del “sindacato di strada”, si è strappata una vittoria importante: la decisione, poi sostenuta dalla Regione, di sostituire la centrale a carbone di Civitavecchia con l’eolico sul mare anziché, come voleva l’Eni, con il “vecchio” gas.
Dopo qualche giorno ho rivisto, in una sconosciuta sala d’albergo al Parco dei Principi, fra Fiumicino e Roma, gli edili laziali. Con sorpresa: tantissime donne, tutte elegantissime ( questo è un dato visibile ovunque). Vedere un’edile con i tacchi a spillo ti fa riflettere su come è cambiato il lavoro, non solo gli elmetti per salire sulle gru fra la calce e la polvere, ma, evidentemente, il segno che anche l’edilizia è ormai largamente penetrata dal digitale.
Al congresso nazionale, tenuto a Modena, le lavoratrici edili digitali erano anche di più. E il congresso stesso, come del resto tutti gli altri, molto spettacolare: ovunque ho trovato sale prestigiose, musiche, fiori, filmati e invenzioni sceniche di ogni genere, pasti con prodotti del posto buonissimi. Non un segno di “imborghesimento”, come si sarebbe detto un tempo, ma dello status acquisito dal sindacato, una importantissima istituzione della società che dimostra anche così il suo ruolo. Ovunque infatti – e questa è, confesso, la parte più noiosa che però testimonia l’importanza della Cgil – una lunga fila di autorità che vengono a rendere omaggio. Peccato che quasi tutte, portato il saluto, se ne vadano. Gli avrebbe fatto bene capire che dopo l’euforia del 110% di cui il governo stava negli stessi giorni preparando l’omicidio, vittime gli edili e i clienti più poveri, sul tavolo si stavano accumulando non pochi problemi: cosa comporta per gli edili il fatto che non si potrà più continuare a cementificare, e dunque a costruire irresponsabilmente e bisognerà invece rammendare per tener fede agli obiettivi, assai ravvicinati, proprio in questi giorni fissati dall’Ue per la ristrutturazione energetica degli immobili?
Al congresso del Piemonte, una quantità di delegati rumeni, a Torino quasi tutti da circa vent’anni. Tutte e tutti rimpiangono non dico Ceausescu, ma certo il loro paese quando era socialista: sanità pubblica «non come qui che tocca aspettare un anno, e invece lavoro malpagato ma garantito, università gratis e scuola fino a 17 anni», mi dicono.
Tristissimi i dati su questa regione: era l’avanguardia della modernità e della ricchezza, il Pil più 5% della media fino al ‘95, ora tutti gli indici sono al di sotto della media nazionale. I dati qui sono stati forniti da una tavola rotonda aperta dalla relazione della direttrice della Banca d’Italia del Piemonte, partecipi, oltre naturalmente il segretario regionale Giorgio Airaudo (ex deputato di Sinistra Italiana), il consigliere delegato della Michelin, della Lavazza e un esponente di non ricordo quale organismo imprenditoriale. Il simbolo di Torino, l’automobile, mortificato: in Germania ogni quattro prodotte una è elettrica, in Inghilterra e Francia una su 6, l’Italia, ferma, indietro persino rispetto alla Spagna, la Slovenia, il Portogallo, la Romania. Non c’è più la Fiat, ma Stellantis dove è? C’è un capannone vuoto, solo sette impiegate, sole. C’è stata mai qualche autorità che sia venuta a discutere una nuova strategia per il territorio dopo la fuga degli Agnelli? No.
Diversi, perché i delegati sono per me figure più consuete, quelli del congresso Filc. Il congresso si è fatto a Perugia, città colta ma, da tempo in mano alla destra e nemmeno più c’è qualcuno che se ne scandalizza. Ma il problema con cui sono alle prese è forse più schiacciante di ogni altro: la scuola. Non solo per via di Valditara, degli immobili che crollano, di come si fa ad aiutare a crescere ragazzi che le catastrofi che incombono sul mondo rendono anche psicologicamente oltreché economicamente a disagio. La cosa più difficile con cui devono fare i conti è che la accelerata digitalizzazione dell’economia, se non si vuole che la maggioranza dei lavoratori di domani sia tagliata fuori, impone di mettere al centro un modello di formazione del tutto nuova, lungo l’arco di tutta la vita. Una sorta di moltiplicazione delle 150 ore, un’alternanza di studio e lavoro permanente, non quella cosa ridicola che era stata introdotta. Non è questione che riguarda solo maestri e professori, ma tutti i lavoratori, forse ci vorrebbe un pezzetto di Flc presente in ogni categoria. Per aiutare ogni sindacato ad attrezzarsi.
E infine, a Verona, lo Spi, il più potente, per via dell’invecchiamento. Ma i delegati sono tutti molto giovani. Anche di spirito, direi. Peraltro qui hanno addirittura fatto una sfilata di moda.Ma con tessuti riciclati.
Non mi ero mai chiesta perché, io che sono pensionata, non mi sono mai iscritta allo Spi, come se i giornalisti fossero una specie diversa. E però anche i lavoratori delle altre categorie, perché, quando diventano vecchi non restano nello stesso sindacato da cui provengono? Ho scoperto così che questa questione da tempo dà luogo a una discussione difficile, che verte su quali sono i problemi orizzontali, e cioè comuni a tutti, e quelli no, e quindi quali dovrebbero essere di competenza confederale, poiché vecchi si diventa tutti allo stesso modo. La vecchiaia peraltro non è solo pensione, ma molto di più. I pensionati dovrebbero comunque esser utilizzati come militanti: sul territorio potrebbero essere preziosi. Ho buttato lì la proposta di un gemellaggio fra la Spi e la mia Arci, insieme potrebbero essere il nerbo delle reti di strada.
Non posso qui riferire dei complessi problemi di cui in questi congressi si è parlato, tutti del resto alle prese con il devastante smantellamento del lavoro operato in questi anni: parcellizzazione, precariato, finti appalti, digitalizzazione, tutti fenomeni che hanno ovviamente indebolito il potere contrattuale del sindacato. E col compito impervio di dover affrontare una crisi che, per ragioni ecologiche, tecnologiche, di modello di produzione, impone un mutamento di sistema e di vita profondo. Tutte le relazioni introduttive di questi congressi hanno affrontato questo tema, mostrando consapevolezza delle sue dimensioni storiche. Altra cosa è però aver individuato, e già sperimentato, il percorso necessario a far fronte a questo cambiamento. Molto meno dei partiti, ma anche il sindacato è paralizzato da TINA, there is no alternative, l’acronimo con cui si dice «non c’è alternativa a questo sistema», il veleno che ha ormai da tempo passivizzato il mondo. La prima cosa da fare è liberarsi di questa visione, tornare a pensare che cambiare è legittimo, e anzi indispensabile. Ma serve anche riflettere seriamente a come si fa, oggi, 21esimo secolo.
È difficile, ma possibile. Io sono tornata da questo viaggio nella Cgil ottimista. Non è vero che la sinistra non c’è più in Italia. Ce ne è pochissima in parlamento, (o forse è il parlamento che c’è poco fra loro ), ma queste migliaia di delegati, sono un campione di un mondo più vasto che c’è attorno a loro, sono la sinistra. Lo sono per storia, un corpo sociale ma anche culturale dinanzi al quale ti viene naturale dire compagne e compagni senza che suoni burocratico. La sinistra, insomma, c’è.
* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto
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