“Quando io e Wojtyla sfidammo il regime con un giornale libero”

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CRACOVIA – «Lo conobbi nel ‘63, nel buio della guerra fredda vissuta da questa parte. Le sue lezioni di teologia e filosofia erano difficilissime ma memorabili, per noi giovani sacerdoti di Lublino. Mi convinse a venire a Cracovia per fare insieme quel giornale, l’unico media libero di quella parte del mondo, e da allora vissi nella sua luce». Padre Adam Boniecki narra lucido, ma trattiene appena l’emozione, ricordando un’esistenza a fianco di Karol Wojtyla. Pranziamo insieme nella prospera Cracovia dove cominciò la sfida all'”impero del male”, coppiette e teenagers lo salutano con rispetto. Wojtyla sta per essere beatificato, che ricordi si svegliano in lei? «Quelle sue lezioni a Lublino faticose e appassionanti. Ci convinse a non avere paura. Mi portò a Cracovia, cominciò la mia avventura a Tygodnik Powszechny. Con lui sfidammo la censura, facevamo un giornale libero di qualità  là  dove era vietato. C’era tutto lui: un media per parlare alla gente, della gente, con la gente». Come si superava la paura? «Con l’incoraggiamento di quella sua incredibile tranquillità  forte e sorridente. Mi incaricò poi di diventare il cappellano dell’università . Un incarico ufficialmente proibito, ma tollerato dal regime. Era la sua priorità : il rapporto con i giovani e la cultura. Anche con gli intellettuali laici: fin da allora pensò a un network con loro. Scrittori, registi, accademici, in lui e nel nostro giornale trovarono lo spiraglio». Quanto era pericoloso? «Lui non si curava del pericolo, sapeva come muoversi. Anni dopo, da Pontefice, mi affidò l’edizione polacca dell’Osservatore romano. La Curia aveva paura, riteneva troppo rischioso inviarla oltre cortina. Lui mi affidò la supervisione, dovendo pensare a ogni contenuto, e il recapito. Ebbe ragione, sciolse le paure. Proprio come, ricordo ancora quel giorno, scese dalla Mercedes davanti alla Sinagoga di Roma e abbracciò Toaff. Tesi entrambi, in un attimo la tensione sparì nell’abbraccio». La Polonia è in festa, lei come vive quest’atmosfera? «Penso a lui, provo gioia e mi pongo domande. E’ giusto santificarlo, spero che non diventi un’icona, lui che era un uomo, un uomo straordinario perché sapeva pensare alla gente comune e amarla». Che cosa ha lasciato lui a questa Polonia sempre più moderna e laicizzata? «A parte la svolta dell’89, ha lasciato un cardinale moderno e aperto al paese reale come Dziwisz. E una società  che sa vivere presente e futuro senza paure. Quando guardo oggi la giovane, moderna società  polacca penso com’era lui prima di quelle lezioni a Lublino, prima dell’avventura del giornale libero a Cracovia. Lui giovane operaio e poi attore, bel ragazzo adorato, sportivo, amico dei partigiani e poi vescovo che insieme ai laici si batteva per la libertà . Ha lasciato un paese come lui: moderno, sincero, aperto al mondo». Ricordi personali? «Lui dal 1980 cominciò a confidarsi sull’inizio di certe sue riflessioni: sul desiderio d’una riconciliazione storica con l’ebraismo, sulle scuse per Galileo o per le Crociate. Lui m’invitò a colazione con la mia anziana madre, fervente cattolica, e ricordando quegli anni difficili insieme a fare il giornale disse a mamma “grazie di avermi dato suo figlio”. Era il Papa, e l’uomo, che una volta, malato al Gemelli, mi chiese di dire messa per lui nella stanza d’ospedale, come per un momento d’intimità  tra compagni di una lotta non violenta. Andava oltre limiti e confini della Chiesa ufficiale, con il suo tratto umano». Il momento più difficile? «Quando i vescovi polacchi scrissero la memorabile lettera ai vescovi tedeschi, “perdoniamo e chiediamo perdono” per la guerra. Lui la difese, ma allora in piena guerra fredda la gente ricordava ancora l’occupazione nazista, non era d’accordo. Lui seppe far capire che doveva spiegarsi meglio. Non si credeva infallibile».


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