Io, malmenato dai trafficanti sulla spiaggia di Zarzis
Sono da poco passate le tre del pomeriggio di sabato 9 aprile, festa dei «martiri tunisini» , caduti nella prima rivolta contro la Francia (1938). A Zarzis ci sono trenta gradi: sulle spiagge passeggiano pochi turisti. A un certo punto accade una cosa mai vista nell’ultimo mese e mezzo: due jeep della Guardia nazionale si inoltrano nei sentieri sterrati lungo la costa. Fa caldo, ma non è un miraggio. Dove vanno? Proviamo a ragionare. La giornata è cominciata presto. Alle 6 dal porto dei pescatori ha preso il largo una barca con 280 clandestini e, ancora una volta, non si è vista una divisa che fosse una a contrastarli. E allora questi della jeep che cosa stanno cercando adesso? Un paio di telefonate e siamo in macchina, una Renault Symbol grigia presa a noleggio. A Zarzis ce l’hanno solo i trafficanti e i giornalisti (per il momento le due categorie sono ancora abbastanza distinguibili). In una strada sabbiosa ci sta aspettando un amico pescatore, fidato e sperimentato: Mouldi lo conosce da una vita. Ci sentiamo tutti tranquilli e in piena sicurezza. È vero, nei giorni scorsi, l’aria si è fatta pesante per i giornalisti. In mattinata veniamo a sapere che gli inviati del Tg1, Marilù Lucrezio e l’operatore Stefano Belardini, erano stati ancora una volta minacciati, mentre tornavano instancabili sulla battigia a riprendere «scene di ordinario traffico di esseri umani nella Tunisia meridionale» . E la sera prima Chiara Giannini, un’intraprendente collega che lavora per il quotidiano Libero ci aveva fatti preoccupare raccontandoci di un incontro pericoloso con due loschi figuri che volevano soldi in cambio delle foto scattate dal suo gruppo. E adesso tocca a noi. Quelli che ci hanno bloccato sono trafficanti, poco importa se scafisti, intermediari o semplici galoppini del «servizio sicurezza» . Conta che sono i padroni assoluti della spiaggia, che sono sempre più nervosi, forse perché i «clienti» cominciano a scarseggiare, forse perché hanno sentito dire che l’Italia rispedirà indietro gli immigrati. Vanno per le spicce. Vogliono il telefonino, vogliono vedere se ho scattato delle foto. Ho appena il tempo di allargare lo sguardo: alle nostre spalle c’è una fila di ville e rustici palesemente abbandonati. Sono le case-rifugio degli immigrati clandestini? Forse i militari sono venuti a controllarle: già ma dove sono finiti i fuoristrada che avevamo incrociato due minuti fa? Spariti. Uno spintone mi richiama alla realtà . «Il telefono, ti ho visto, hai fatto le foto, dammelo, fammi vedere» , è un francese smozzicato che mi investe insieme alla saliva di una piccola folla rabbiosa. Arrivano a grappoli, ma il telefonino non lo mollo. Forse sbaglio, ma penso che lo farebbero a pezzi e poi farebbero qualcosa del genere anche a noi. Dobbiamo, invece, dimostrare che siamo «innocenti» , che non abbiamo fatto alcuna foto (cosa vera per altro per un elementare principio di cautela). Parlo, cerco di prendere tempo. Ma mi vedo davanti una testona rasata piantata sopra un bisonte che viene verso di me muovendosi come un boxeur, saltella da un piede all’altro e accompagna bene con le spalle. Guarda che situazione, ci mancava solo questo che crede di essere Joe Frazer. Per fortuna (è una legge della natura), anche il branco più ottuso è guidato da un cane pastore. Il nostro indossa un maglione bianco e ha l’espressione civile del 99,99%dei tunisini che abbiamo conosciuto e apprezzato nelle ultime settimane. Il bisonte, intanto, con una mossa a sorpresa si attacca ai miei pantaloni di cotone e li strappa fino all’altezza del ginocchio. Gioco la mia carta, mi rivolgo al giovane in maglione bianco e propongo: «Andiamo solo io e te là in fondo e ti faccio vedere che non ho fatto foto» . È andata. Cinque minuti dopo siamo in macchina. Solo ora mi accorgo che Mouldi ha preso una manata in faccia e si tiene la guancia. Ma, svoltato l’angolo piano, piano riprende a sorridere. Meno male, va.
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