Senza pace e senza giustizia

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La guerra in corso in Ucraina ha una terribile peculiarità, che continua a essere tanto sottaciuta nel dibattito pubblico quanto dolosamente assente nei processi decisionali dei governi occidentali e delle istituzioni sovranazionali: per la prima volta, dopo la crisi del secolo scorso dei missili a Cuba, un conflitto rischia di divenire mondiale e di trasformarsi in guerra nucleare. È una prospettiva cui concorre la quotidiana escalation, altrettanto ignorata dai decisori globali e, anzi, attivamente favorita con massicci invii di armamenti di crescente gittata e offensività.

La strategia occidentale, che vede l’Unione Europea perfettamente allineata agli Stati Uniti nonostante interessi economici ed energetici divergenti, appare dunque sempre meno giustificabile come doveroso e legittimo contributo alla difesa degli aggrediti; i soli Stati Uniti hanno fornito armamenti per 30 miliardi in pochi mesi. Il contributo, invece, è alla destabilizzazione globale e all’espansione dell’industria bellica e, in generale, del ‘sistema’ della guerra e del “complesso militare-industriale”. La guerra in Ucraina si è così trasformata in occasione – oltre che di ridisegno del (dis)ordine mondiale – di immani profitti per le industrie di armamenti, e di rinnovare gli arsenali per i governi occidentali e la Nato.

La battaglia per la pace, vent’anni dopo

Una seconda caratteristica emersa altrettanto preoccupantemente nella guerra tra Russia e Ucraina è la messa in mora della questione della pace e la debolezza dei movimenti a essa riferiti. Quale distanza dal 2003 e dalla potente opposizione globale all’invasione dell’Iraq! Opposizione che non scongiurò il criminale e illegale intervento bellico voluto da Stati Uniti e Regno Unito, e in specifico da George W. Bush e da Tony Blair (a lungo faro di un certo laburismo “riformista” attecchito anche in Italia). Ma che almeno produsse a livello sociale e culturale robusti anticorpi, diffusa sensibilizzazione delle coscienze e imponente mobilitazione dei corpi. Lavorare per riportare in superficie e nelle strade quelle coscienze critiche e la cultura attiva della pace è oggi, ancor più, questione letteralmente vitale per i destini non solo dell’Europa ma dell’intera umanità.

La battaglia per il disarmo e per la riconversione dell’industria bellica è, allora, urgente, indispensabile e qualificante anche – in primo luogo – per il sindacato, nazionale e mondiale. Da lì può partire la ripresa di un movimento globale capace di rilanciare l’iniziativa e, prima ancora, di elaborare un pensiero programmatico e unificante per una cultura politica di risoluzione nonviolenta dei conflitti e, in generale, per un nuovo modello di organizzazione sociale ed economica centrata sulla giustizia sociale e ambientale, che sono strettamente connesse alla pace.

Senza pace, senza giustizia

Guerra e pace: sono il filo che attraversa i contenuti del “20° Rapporto sui diritti globali”, appena pubblicato dall’Associazione Società INformazione Onlus. La sua presentazione era prevista a Venezia il 12 dicembre scorso, nell’ambito dell’iniziativa internazionale promossa dalla stessa Società INformazione con altre importanti realtà, come il Tribunale Permanente dei Popoli: la terza Conferenza sui processi di pace nel mondo, dopo le precedenti del 2009 e 2011. Previste le relazioni di rappresentanti ed esperti di diversi paesi segnati da conflitti armati, spesso decennali, sui relativi percorsi di disarmo e di pace. In alcuni casi terminati positivamente (Irlanda), in altri in corso di implementazione (Colombia) o sabotati da una delle parti in causa (Kurdistan), negati (Saharawi), unilaterali (Paesi Baschi), dimenticati (Palestina). Nutrita la partecipazione dei kurdi, con gli interventi di Asya Abdullah (co-presidenta Pyd, Federazione Nord-Est della Siria), Tara Huseyni (co-presidenta Movimento del Popolo kurdo dell’Iraq), Adem Uzun (Congresso Nazionale del Kurdistan), Ebru Gunay (capogruppo parlamentare Hdp al parlamento turco) e di Yilmaz Orkan (Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia). Qualificata anche la partecipazione della Colombia con Rodrigo Londoño Echeverri (presidente Partito Comunes, Colombia) e German Gomez (dirigente delle FARC), tra i firmatari dell’Accordo di pace del 2016, e con Carlos Beristain (membro della ‘Comisión de la Verdad’ colombiana). Il Saharawi e il Fronte Polisario erano rappresentati da Fatima Mahfud, i Baschi da Aimar Etxeberria, responsabile di Eh Bildu, la coalizione di sinistra sostenitrice del nazionalismo basco.

Le lobby, il dito e la luna

La Conferenza purtroppo è stata fortemente penalizzata, trasformandosi in incontro a porte chiuse, a causa dello scandalo cosiddetto “Qatargate” che ha investito il Parlamento europeo proprio in quei giorni. Era infatti in programma anche l’intervento di deputati e di rappresentanti della Ong Fight Impunity, fondata da Antonio Panzeri, e sino ad allora da tutti considerata molto attiva a livello europeo sui diritti umani. Tanto che, dal 2020, Fight Impunity si era fatta sostenitrice dell’edizione internazionale del nostro “Rapporto sui diritti globali”, dall’inizio promosso dalla Cgil e pubblicato dalla sua casa editrice. Pur se tutti i contenuti del volume sono opera di Società INformazione, che possiede il copyright, Fight Impunity ha utilizzato indebitamente il Rapporto per accreditarsi sul piano internazionale. L’inchiesta dei giudici belgi sta mostrando una realtà di malaffare e di cinismo politico che sarebbe giunto a contribuire alla negazione di diritti da parte di Stati come il Qatar e il Marocco, dietro allo schermo ipocrita di Ong. Un fatto di estrema gravità, che indirettamente colpisce il nostro ventennale Rapporto e la stessa Cgil, di cui Panzeri è stato il segretario della Camera del Lavoro di Milano e il responsabile nazionale per l’Europa, prima di divenire parlamentare europeo.

Come sempre, occorrerà attendere i risultati finali e il vaglio dei giudici dell’inchiesta, tanto più che essa, singolarmente, prende l’avvio da servizi segreti di più paesi. Sono ancora scarse le informazioni – a parte l’evidenza eloquente dei pacchi di banconote rinvenuti – che non derivino solo da cronache giornalistiche, spesso inaffidabili. Va però apprezzato quanto scritto da un parlamentare europeo non scalfito dall’inchiesta, Massimiliano Smeriglio, in un articolo dal titolo: “Smettere di lapidare Eva. Questa non è giustizia” e dal sommario: “Lo scandalo in corso ci deve interrogare sulla capacità delle istituzioni di divincolarsi dalla presa delle lobby. Ma quello che sta accadendo contro la parlamentare è gravissimo” (“Il Riformista”, 21 gennaio 2023). Il riferimento è alla già vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili, arrestata e costretta alle dimissioni, le cui condizioni detentive sono state definite forme di tortura.

Poste dunque le necessarie cautele e le garanzie da riconoscere a qualsiasi imputato, in attesa che si arrivi all’accertamento della verità nel processo e nel contradditorio tra le parti, rimane in evidenza una questione cruciale per la democrazia: il condizionamento delle scelte politiche e legislative da parte di gruppi portatori di interessi illeciti, o anche leciti ma solo formalmente. È questo che dovrebbe essere messo al centro dell’attenzione e delle misure da prendere, dopo lo scandalo “Qatargate”: la necessità di fermare quello smisurato potere, che dispone di veri e propri eserciti e di risorse inesauribili. Sono indicati in 12mila (40mila secondo Transparency International) i lobbisti accreditati al Parlamento europeo; investono un miliardo e mezzo l’anno per sollecitare – lecitamente o meno – provvedimenti legislativi e finanziari a beneficio delle proprie organizzazioni, in molti dei casi multinazionali dei tre settori più ricchi del mondo: armamenti, farmaceutica, fonti energetiche fossili.

Questa è la luna, mentre il “Qatargate” rischia di rimanere solo il dito, la foglia di fico. Basti un solo esempio, di cui scriviamo nel nostro “20° Rapporto”. Nell’ottobre 2022 sono state pubblicate le prove del fatto che ben 15 generali e ammiragli statunitensi in pensione hanno lavorato dal 2016 come consulenti retribuiti per il ministero della Difesa dell’Arabia Saudita, guidato dal principe Mohammed bin Salman (considerato dalla stessa Cia il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, naturalizzato americano). Dal 2015 sono ben 500 gli ex militari Usa, molti di altissimo grado, assunti dalle ricche monarchie del Golfo e da altri paesi con compensi stratosferici, talvolta negoziati con i governi stranieri mentre erano ancora in servizio attivo.

Oppure, basti pensare che negli ultimi 20 anni il Pentagono ha speso 2,5 miliardi di dollari in lobbying. O, ancora, sapere che nello stesso giorno in cui emergeva il “Qatargate”, il presidente cinese terminava una visita in Arabia Saudita (paese rivale storico del Qatar), dove aveva firmato contratti multimiliardari e si era impegnato ad acquistare più greggio pagandone una parte in valuta cinese, un fatto inedito che erode la supremazia del dollaro. Due giorni prima un tribunale Usa aveva archiviato le accuse nei confronti del principe saudita per il caso Khashoggi, essendogli stata riconosciuta l’immunità da parte di Biden. Intanto, il Qatar sta sostituendo la Russia nelle vendite di gas naturale all’Europa, in competizione con il più costoso gas statunitense.

Nell’auspicare che l’inchiesta belga avanzi speditamente e si arrivi a una sentenza rigorosa e senza sconti, non si può, insomma, seriamente prescindere da una lettura e interpretazione del quadro geopolitico, geostrategico ed economico dal quale essa prende l’avvio.

 

* Fonte: Sergio Segio, Sinistra Sindacale n. 2/2023



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