La Grande Guerra di propaganda
Ora esposte in una mostra a Genova Le lettere d’amore tra il fante Arcibaldo Dalla Daga e la bella Teresina Dal Fodero Mai esposte prima le testate che il nemico diffondeva oltre la linea del Piave con gli aerei. ATrieste ai tempi dell’asilo passavo ore stupende nella soffitta della nonna tra mucchi di cose dimenticate. Ci stavo come un topo nel formaggio, e fu lì che scoprii l’esistenza della guerra. Accadde quando vennero fuori gli scarponi chiodati con cui nonno Ferruccio, in divisa austriaca, era tornato dal fronte russo in Galizia. Da allora mi misi a cercare febbrilmente, come un archeologo in una tomba assiro-babilonese. In quella ricerca, il secondo conflitto mondiale non aveva lasciato traccia, non fosse per un elmetto della Wehrmacht con un’indecifrabile scritta in pennello bianco: “Jatoj”. Il fantasma che usciva dai cassettoni e dagli armadi era sempre lo stesso: la Grande Guerra. Di quello c’erano immagini. Non foto, ma disegni e caricature. Il meglio erano due risme di una rivista in lingua tedesca a caratteri gotici. Portava il nome di Muskete, “il moschetto” ed era stampata a Vienna. Lo scontro più sanguinoso del secolo vi appariva come un fumettone per adolescenti. La trincea asburgica era uno spazio di allegre scorribande, dove le cucine fumavano sempre, mentre il nemico italiano era magro e scalcagnato, una banda di polli da infilzare allo spiedo. Impossibile non parteggiare per gli austriaci. Poi accadde che in un armadio, accanto a una scorta di nocino e cotognate coperta di ragnatele, venissero fuori cartoline con disegni a colori di parte italiana. Favolose, un vero tesoro. Le ricordo come fosse ieri. C’era scritto La Tradotta, con accanto la firma dell’autore, Antonio Rubino. Una aveva per titolo “Sul Piave piove”, e mostrava una pirotecnia di granate sul fiume, contro le trincee austriache piene di uomini dai nasi a patata, le bocche aperte e la divisa grigia. Un’altra era “L’offensiva della sete”, con fanti italiani che con gli scarponi schiacciano i “crucchi” in un pantano pieno di allegri ranocchi. Confuso, andai dalla nonna a chiederle per chi parteggiare, austriaci o italiani. La vecchia spiegò pazientemente che Trieste era un luogo speciale. Il nonno aveva fatto la guerra con gli austriaci, ma suo fratello era scappato dall’altra parte per far vincere l’Italia. Anche per questo, disse, dopo il ’18 erano piovute nel sottotetto scartoffie di entrambe le parti in conflitto. Concluse che la trincea era una porcheria e quei disegni non dicevano il vero. Fui ovviamente deluso, perché da bambini si ha bisogno del buono e del cattivo. Da allora la soffitta mi interessò meno, finché mi dimenticai di quelle meraviglie di carta. Le quali, al primo trasloco, finirono inevitabilmente al macero o dal robivecchi. Solo più tardi ho capito il senso della propaganda e imparato a decrittarne la grafica. Ed ecco che davanti alle mostre sul tema, come quella sui giornali di trincea in apertura dal 14 al 17 aprile al Palazzo Ducale di Genova nell’ambito della serie “Storia in piazza”, mi si apre un doppio viaggio nel tempo: nell’infanzia e nella Grande Guerra. Curata da Francesco Maggi, originariamente filatelico, la rassegna porta in luce un’iconografia rivoluzionaria per l’Italia di allora (vedi www.giornaliditrincea.it). È quella che esplode dopo Caporetto, quando il sadico Cadorna viene mandato a casa e il nuovo comandante in capo Armando Diaz ordina di rialzare il morale delle truppe con la diffusione di giornali da prima linea, sotto il coordinamento di uno speciale ufficio dello stato maggiore. Fino a quel momento la guerra per parte italiana esprime poco: fogli ciclostilati di brigata, come La Baionetta o La marmitta, ristretti – spiega Mario Isnenghi, tra i pochi ad avere frugato criticamente in questo angolo della storia nazionale – a una dimensione di «intrattenimento goliardico», minimali come illustrazioni e per addetti ai lavori. Nell’inverno del ’18 cambia tutto, nascono giornali nuovi, irrompe il colore, il linguaggio diventa meno retorico, i migliori disegnatori e umoristi del Paese si mobilitano. È l’adeguamento alla pubblicistica che gli alleati – Francia, Inghilterra, Stati Uniti – hanno già messo in campo. Ed ecco La Tradotta, con i disegni di Antonio Rubino ed Enrico Simoni, e la rubrica delle lettere del soldato Baldoria alla sua fidanzata, a cura dell’inviato del Corriere Bernardo Fraccaroli. Ecco Ardengo Soffici che fonda La Ghirba e chiama a disegnare Giorgio De Chirico; è il più salace dei giornali di trincea, con la corrispondenza fra il fante «quasi ardito ex piantone» Arcibaldo Dalla Daga e la bella, di nome ovviamente Teresina, e di cognome, pensate un po’, Dal Fodero. Il motto di Soffici è «La guerra è amara, addolciamola con l’allegria». Sul Montello appaiono i disegni del futurista Mario Sironi; sul Sempre avanti delle truppe italiane in Francia, scrivono Giuseppe Ungaretti e Curzio Malaparte. Mai esposti prima, a Genova compaiono anche i giornali di controinformazione in lingua italiana che il nemico diffonde oltre la linea del Piave con gli aerei o le “Friedengranate”, le granate (inoffensive) della pace. Ci sono La domenica della Gazzetta, che propaganda l’inesistente dolce vita dei prigionieri italiani in Austria, o il foglio La Giberna con la triste istoria dei profughi dall’Istria e Dalmazia che finiscono, si scrive, in un’Italia alla fame. L’Austria, che non aveva un Cadorna capace di irritare anche la stampa del proprio Paese (vedi nel 1915 la polemica col direttore del Corriere Albertini) era partita in anticipo coi periodici di guerra, in tutte le dieci lingue dell’impero. Prima fu la conversione bellica di settimanali come l’Interessante Blatt o il mitico Muskete con le caricature di Fritz Schoenpflug, poi vennero i giornali di trincea, come il Vilà glapia in ungherese o l’Unsere Krieger, che ha in prima pagina lo stemma di Turchia, Germania e Bulgaria accanto all’aquila austriaca. Roberto Todero, che anche sul terreno è uno dei più attenti ricercatori di cose della Grande Guerra attorno a Trieste e Gorizia, un giorno ha trovato in una grotta del Carso un’armonica a bocca asburgica avvolta in una copia del giornale Militarzeitung. «Era lì da novant’anni – dice – ma sembrava appena deposta dal suo proprietario. Ne so anche il nome, perché sul foglio c’erano prove a inchiostro della sua firma. Briciole di umanità perduta che ti fanno sentire quella guerra tremendamente vicina».
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