Il realismo magico giorno per giorno

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Vita di Gabriel Garcà­a Mà¡rquez, vale a dire di uno degli scrittori più celebri al mondo, un narratore che, nato in un insignificante villaggio di uno dei Paesi più poveri dell’America latina, ha incarnato il simbolo del riscatto, non soltanto culturale, di un continente. Vita di un gigante della letteratura, di uno scrittore già  «classico» , considerato tale anche se ancora tra noi, anche se le sue vicende personali e politiche fanno parte della cronaca dei nostri giorni. La dobbiamo, questa «vita straordinaria» , allo studioso britannico Gerald Martin, che per 17 anni è stato alle calcagna dello scrittore colombiano, annotando ogni movimento, ogni scelta, ascoltando testimoni e consultando documenti. Risultato di tanto lavoro, tuttavia, non è quello che ora abbiamo tra le mani (Vita di Gabriel Garcà­a Mà¡rquez, Mondadori), ma una montagna di appunti che di volumi forse ne avrebbero richiesti una decina, e alla quale il biografo ha dovuto rinunciare, perché altrimenti il lavoro non sarebbe mai stato pubblicato. «Avevo superato le duemila pagine e le seimila note» , confessa Gerald Martin, «quando, finalmente, ho capito che mai il mio progetto avrebbe visto la luce. Ciò che il lettore ha sotto gli occhi è dunque la versione abbreviata di una biografia ben più lunga» . Benedetta sintesi, dunque. E tuttavia l’autore di Vita di Gabriel Garcà­a Mà¡rquez non va apprezzato soltanto per questo, ma per la capacità  di rendere il senso di un’esistenza attraverso i particolari, quelli che di solito agli studiosi di formazione accademica sfuggono: i particolari, anche minimi, che sono la materia prima per chi vuol raccontare la vita di uno scrittore complesso, inquieto, errabondo e tendente a essere bugiardo come l’autore di Cent’anni di solitudine. Già  parte della sua vita, Garcà­a Mà¡rquez l’aveva messa nero su bianco nell’autobiografia significativamente intitolata Vivere per raccontarla (2002), dove quel titolo significa appunto che nell’idea di uno scrittore come lui, il racconto di una vita prevale sulla vita stessa. Detto più chiaramente e secondo la visione di Garcà­a Mà¡rquez: non sarebbe il caso di vivere se la vita non la si potesse raccontare (o se non meritasse di essere raccontata). Ma dicevamo dei particolari. Ed è questo il punto di forza del lavoro di Martin, perché è dai particolari che si delineano i caratteri di un personaggio e quegli esiti e quelle svolte nella vita che poi vengono chiamati destino. Intanto, la data della «nascita vera» di Garcà­a Mà¡rquez (chiamato dagli amici Gabito, diminutivo di Gabo); non quella anagrafica (il 6 marzo 1927, una domenica, «nel pieno di una bufera fuori stagione» ), ma quella del giorno in cui egli decise di essere uno scrittore; o meglio, di esserlo in un modo tutto particolare. Fu nel settembre 1948, quando ebbe tra le mani un libro di Virginia Woolf. Racconta Martin: «Gli amici di Gabito ricordano che, in quel periodo, una frase in particolare lo colpì, frase apparentemente ben poco adatta a una signora che, sosteneva, aveva letto in Orlando, uno dei suoi romanzi: “amore vuol dire togliersi le mutande”, traduzione piuttosto libera di “l’amore significa sbarazzarsi della propria gonnella”. Una citazione che deve avere influito sulla sua visione del mondo più di quanto non traspaia a una prima lettura» . Ed è così, se si pensa a quante volte i personaggi femminili di Cent’anni di solitudine per dire «amore» non fanno altro che «togliersi le mutande» , più o meno in modo condiscendente. Un aspetto importante della vita di Garcà­a Mà¡rquez è l’attitudine a coltivare l’amicizia di personaggi ricchi e potenti. E questo è tipico di chi nasce in una zona misera del mondo e riesce a farsi un nome. Ma nello scrittore colombiano davvero il successo coincide con la sua «popolarità » presso i nomi più celebri non soltanto della letteratura e delle arti, ma della politica. E qui è d’obbligo un accenno alla sua irrinunciabile amicizia con Fidel Castro, che tante critiche gli ha causato. Accennando ai tempi d’oro di quel rapporto, Martin annota: «Gabo non si limitava a comportarsi come un fratello minore e a essere riverente, ma sapeva anche quando scherzare e recitare la parte del buffone di corte e fino a che punto spingersi» . E poi: «Fidel non nutriva, per natura, grande rispetto per la categoria degli scrittori — né per la loro libertà â€” ma sapeva sempre riconoscere chi, tra loro, era il migliore» . Castro vuol dire comunismo, rivoluzione comunista; e a noi sembra che Gerald Martin, sul comunismo di Garcà­a Mà¡rquez dica una cosa sensata, e cioè che a proposito di Cuba e più in generale dei Paesi socialisti, lo scrittore si sia imposto di non criticare mai pubblicamente le realtà  comuniste («nemmeno quelle più vicine a Mosca» ) per non prestare il fianco al gioco dei loro avversari. Ma si diceva che Gabo è la faccia pulita e più spendibile di un intero continente. E in quel completo bianco che lo scrittore volle indossare quando nel 1982, a Stoccolma, ritirò il premio Nobel, vi è la prova della propria consapevolezza di essere un simbolo per la Colombia, per l’America latina, per tutti coloro che vivono nelle zone povere e sfruttate del pianeta. «Con indosso il suo provocatorio liquiliqui— scrive Martin— la cosa più vicina, in fin dei conti, a una divisa da latinoamericano della classe più umile e, orrore!, un paio di stivali neri, Garcà­a Mà¡rquez si preparò al momento della verità » . La soledad de America latina fu il titolo del suo celebre discorso, «scritto in uno stile aggressivo, provocatorio, ipnotico» , che «univa spunti politici a un realismo magico decostruito: un attacco senza mezzi termini all’incapacità  degli europei, o alla loro mancanza di volontà , nel comprendere i problemi storici dell’America latina e alla loro riluttanza nel concedere al continente quel tempo necessario a maturare e crescere» . Oggi ottantaquattrenne, il grande scrittore assapora il fiele e il miele della vecchiaia. Guarito da un linfoma e da un tumore al polmone, il grande vecchio continua a viaggiare, a stendere proclami, a scrivere memorie, a dare voce agli umili di tutte le Macondo del mondo. La cronaca recente ci ha ricordato di considerarlo un uomo come gli altri. E forse, proprio perché è un grande artista, più fragile. Si è appreso di recente della fine dell’amicizia tra Gabo e uno dei suoi migliori amici, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Accadde in un cinema di Città  del Messico nel 1976. «Senza una parola, da bravo pugile dilettante qual era, Vargas Llosa sferrò un pugno in piena faccia a Garcà­a Mà¡rquez, mandandolo lungo disteso. Mentre Gabo era ancora a terra, semisvenuto (cadendo aveva battuto la testa sul pavimento), Vargas Llosa tuonò: “Questo è per quel che hai detto a Patricia”, o— a seconda dei testimoni—”Questo è per quel che hai fatto a Patricia”. Patricia è la moglie di Vargas Llosa.


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