L’urlo disperato di Beddy il nigeriano “Così il mio bimbo è sparito tra le onde”

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Lampedusa – «All are dead, all are dead». In una stanzetta del poliambulatorio mormora poche parole in un inglese stentato, gli occhi bassi nel volto nero scavato. E’ il primo superstite a raccontare di quei 250 compagni di sventura inghiottiti dalle onde alte tre metri proprio mentre i marinai di una motovedetta italiana tentavano di gettare loro una cima. Una tragedia a lieto fine per lui che, poche ore dopo, ritroverà  la fidanzata che credeva morta. PETER E I 400 EURO «Mi chiamo Peter, Peter Uko». Camicia rossa ancora inzuppata, un bicchiere d’acqua nella mano tremante, Peter comincia a raccontare la sua storia contando in inglese fino a 17. «One, two, three…». Sono le ore passate in navigazione fino al momento in cui le cose si sono messe davvero male. «Poi, “bad see”, il mare ha cominciato a farsi brutto, le onde altissime, in barca eravamo circa trecento, le donne gridavano, i bambini piangevano, il motore andava a singhiozzo, poi si è fermato. Di notte, quando abbiamo visto la nave arrivare con le luci spente è successo di tutto. I marinai ci stavano gettando una cima, navigavamo a pelo d’acqua e la barca ha cominciato a riempirsi e poi si è capovolta. Siamo caduti tutti in mare, avevo la bocca piena d’acqua, bevevo e bevevo, cercavo di tenere stretta la mano della mia fidanzata, ma poi mi è scivolata ed è annegata. Io cercavo di nuotare, poi qualcuno mi ha tirato su. Anche il mio amico, che era partito con noi, è morto tra le onde». Peter è del Camerun, ha 27 anni. Racconta di essere partito da Al Zwara, in Libia, due giorni fa dopo aver pagato 400 euro agli scafisti. «Vivevo in Libia da due anni, sono stato anche prigioniero, poi mi hanno liberato, facevo l’imbianchino. Quando è scoppiata la guerra, i poliziotti di Gheddafi volevano che combattessimo contro i ribelli. E chi rifiutava veniva picchiato, torturato. Meglio la morte, meglio affrontare il mare che restare qua ed uccidere altre persone. E così siamo partiti. Adesso che ho perso tutto, anche Mimì, voglio provare a ricominciare da qualche parte». MIMàŒ È VIVA Ma Mimì è viva, salvata da un’altra motovedetta italiana. Quando racconta la sua odissea a chi presta i primi soccorsi, anche lei crede che Peter sia morto. «Avevo paura già  prima di partire. I libici odiano i neri e avrebbero ucciso il mio fidanzato che non voleva arruolarsi. Ci dicevano: “Se non volete combattere andatevene, andate in Italia, se no siete morti”. Siamo partiti ammassati su un barcone di dieci metri. C’erano tante donne e alcuni bambini, alcuni molto piccoli. A bordo qualcuno aveva un satellitare e quando la barca ha cominciato ad imbarcare acqua hanno dato l’allarme. Era buio, c’era vento forte e onde altissime, il mio fidanzato mi teneva stretta la mano, ma quando siamo finiti in mare non l’ho più visto. Ho creduto di morire, di Peter non so più niente». Un’ora dopo, tra le lacrime, Peter e Mimì si stringono in un abbraccio infinito. IL FIGLIO DI BEDDY Chi non riesce nemmeno a piangere è Beddy, nigeriano, 20 anni. Il suo bambino di due anni è forse la vittima più piccola del naufragio. Parla aggrappato alla rete di recinzione del centro di accoglienza. «Sono arrivato in Libia dopo aver vagato per mezzo deserto. Sono un calciatore, giocavo in una squadra di serie C, “Al Jazeera”, ma per vivere facevo lavoretti saltuari. Mi ero sposato tre anni fa, ma mia moglie è scappata e mi ha lasciato solo con il bambino. A questo punto ho deciso di fuggire anche io con lui. Lì non avremmo avuto scampo. L’ho tenuto stretto fra le mie braccia per tutto il viaggio, cercando di riscaldarlo. Ma quando siamo stati trascinati tutti in acqua, mi è sfuggito e non l’ho più trovato. L’ho cercato disperatamente nel buio, l’ho chiamato, ho urlato il suo nome, non mi ha mai risposto». LA SCELTA DI KARIM È somalo, dice di avere 17 anni. Mostra un grosso ematoma al sopracciglio, segno di un pugno che avrebbe ricevuto da un altro migrante. «Eravamo già  in acqua, quasi nessuno sapeva nuotare, in due hanno cercato di aggrapparsi alle mie spalle e mi mandavano giù. Abbiamo lottato per rimanere a galla, non so neanche chi fossero, era buio, non so se sono ancora vivi». Parla qualche parola di italiano che dice di aver imparato dal padre: «Sono scappato dalla Somalia con la mia famiglia, prima siamo stati in Sudan, poi ci siamo stabiliti in Libia un anno e mezzo fa a Tripoli. Facevo il muratore, sono partito da solo». JAREME, SENZA FAMIGLIA È somalo anche lui. «Eravamo cinque fratelli, quattro maschi e una femmina. Mi sono salvato solo io. Avevamo deciso tutti insieme di partire, lì saremmo morti. I libici ci dicevano: “Andate via, imbarcatevi, andate in Italia”. Altro che controlli, anzi è proprio la polizia a favorire la fuga. Ecco perché stiamo partendo in tanti». AHMED, ASHA E IL LORO PICCOLO Ahmed, somalo anche lui, ce l’ha fatta con la sua giovane moglie incinta. «Grazie a Dio, non so come possiamo avercela fatta. Asha è all’ottavo mese di gravidanza, sta bene e anche il bambino sta bene, mi hanno detto che è un maschio, non lo sapevo. È per lui che abbiamo accettato questo rischio. Speravamo di essere tra quelli che ce l’avrebbero fatta». LO SCAFISTA E LE ONDE Non vuole dire il suo nome. Racconta che a guidare il barcone uno scafista c’era. «Quando ha visto la motovedetta si è spaventato e ha spento il motore e la barca è rimasta in balia delle onde che erano già  alte due metri. A quel punto i primi si sono agitati e la barca si è capovolta». Dello scafista dice: «E’ un somalo, sono sempre somali, sono loro che organizzano i viaggi e decidono tutto».


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