Guerre contro l’ambiente, i deserti tossici dei conflitti
Guerre. I veleni delle guerre occidentali negli ultimi vent’anni, dai bombardamenti con armi proibiti alla distruzione di alberi e raccolti. Il costo ambientale delle ricostruzioni e l’inquinamento delle basi militari
In tema di guerre e ambiente il pensiero va subito al rischio di apocalisse nucleare e ai 50 milioni di litri di Agente Orange, defoliante irrorato dagli Usa in Vietnam che distrusse oltre un milione di ettari di foresta e la vita di decine di migliaia di civili, nati con gravissimi problemi. L’Unione internazionale per la conservazione della natura parlò di «ecocidio». Ma vale la pena soffermarsi sull’impatto delle guerre condotte anche dall’Italia negli ultimi 30 anni. Faceva osservare Mike Berners-Lee, direttore di Small World Consulting e autore del saggio The Carbon Footprint of Everything: «I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche dopo la fase della guerra».
LA STORIA DOVREBBE COMMEMORARE ogni anno a marzo l’avvio di ben 4 guerre aeree di aggressione, condotte negli ultimi decenni da membri della Nato e alleati mediorientali, aggredendo interi popoli. Altro che «rondine che deve tornare da un lungo esilio» (Gianni Rodari, 21 marzo). Il 24 marzo 1999 e fino al 10 giugno la Nato sgancia bombe sulla Rfy-Serbia (operazione Forza determinata, nobilitata in guerra umanitaria a protezione dei civili). Il 20 marzo 2003, Bush-Blair e alleati assortiti avviano la campagna di bombardamenti sull’Iraq (operazione Iraqi Freedom, contro le inesistenti armi di distruzione di massa irachene) per poi occuparlo fino al 2011.
IL 19 MARZO 2011, I MEMBRI DELLA NATO colgono al volo la decisione Onu di istituire una no-fly zone e per sette mesi fanno da forza aerea ai ribelli libici (è l’operazione Protettore unificato, in nome della cosiddetta Responsabilità di proteggere – R2P). Il 25 marzo 2016, la ricca coalizione di petromonarchi guidata dai Saud aggredisce (nell’operazione Tempesta decisiva) il già poverissimo Yemen; la guerra che continua è sfociata nella peggiore tragedia umanitaria dei nostri tempi.
MA NON SOLO MARZO E’ IL MESE delle guerre. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991, la coalizione internazionale di 35 paesi (occidentali più petromonarchie e altri Stati arabi) a nome dell’Onu inizia a colpire l’Iraq (è lo spartiacque «operazione di polizia internazionale», più nota come Tempesta nel deserto) poi procede con l’operazione di terra; la vittoria dei 35 è il 28 febbraio, ma l’embargo mondiale al paese prosegue fino al 2003 e alle nuove bombe. Il 7 ottobre 2001, Usa e tanti alleati partono a bombardare l’Afghanistan (operazione Enduring Freedom o Guerra al terrorismo); dopo varie fasi, si è in un certo senso conclusa nel 2021. Va avanti da dieci anni, inoltre, la guerra per procura in Siria.
LE NOSTRE BOMBE SI SONO AVVALSE della regola del doppio standard. La propaganda di guerra ha ammantato di belle ragioni gli interventi nascondendo sotto il tappeto le inaccettabili conseguenze. Milioni di vittime fra morti, amputati, feriti. Distruzione di infrastrutture civili essenziali. Intere popolazioni sfollate. Diffusione del terrorismo, dall’appoggio Usa ai mujaidin afghani negli anni 1980 – Vijay Prasad nel suo libro War against Planet parlò di McJihad – fino all’azione in Libia grazie alla quale da 10 anni il terrorismo provoca lutti ed emergenze umanitarie nell’Africa susahariana. Impoverimento drastico. E poi distruzione ambientale, inquinamento, emissioni climalteranti.
IL NESSO FRA PACE E FUORIUSCITA dai combustibili fossili, quest’anno nella giornata d’azione per il clima del 25 marzo sarà posto – per via dell’Ucraina e delle manovre europee in materia di transizione ecologica – ma troppo a lungo non è stata considerata, dai governi artefici dei conflitti e dai loro stessi popoli, la ricaduta ecologica e dunque umana sia degli interventi militari a casa d’altri che del complesso militar-industriale che li fomenta. Si pensi al clima: come spiegava lo studio Demilitarization for Deep Decarbonization dell’International Peace Bureau (Ipb), il raggiungimento dell’obiettivo primario di zero emissioni è impossibile senza dismettere la produzione e l’uso di energivori sistemi d’arma e pletorici eserciti, e soprattutto senza dire addio agli interventi bellici veri e propri. Un carrarmato e un cacciabombardiere fanno guerra anche al clima (si parla di carbon bootprint: impronta climatica degli scarponi militari).
EPPURE ECO E PAX NON SI SONO ancora fusi, malgrado numerosi studi. Come Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War che analizza il consumo di carburante nelle guerre Usa «antiterrorismo» post-11 settembre: dal 2011 al 2017 la stima al ribasso, per il solo consumo di combustibile, arriva all’emissione di 1,2 miliardi tonnellate di gas serra (CO2 equivalente). Anche quando non muove guerre, il complesso riassumibile nel Pentagono con la sua ragnatela di mezzi, uomini, edifici e basi militari è il primo consumatore istituzionale di energia al mondo. Si pensi poi alla produzione di armi (fatte per essere usate) e al suo zaino ecologico e climatico.
QUANTO VIENE DISTRUTTO IN GUERRA va poi ricostruito (se si trova il denaro). Infrastrutture, case, servizi; rimetterli in piedi comporta un grande consumo di materiali ed energia, in genere non messo nel conto dei costi ambientali delle guerre. Un esempio: produrre una tonnellata di cemento comporta l’emissione di un peso equivalente di anidride carbonica. E in Siria si calcola che per la ricostruzione occorreranno 50 milioni di tonnellate di questo materiale. Ma i rischi ambientali non finiscono qui.
NON DIMENTICHIAMO I VELENI DELLE BASI militari. Ben Cramer nel suo libro Guerre et paix…. et écologie ricorda che la base Usa di Vieques in Portorico, chiusa per referendum popolare nel 2001, è ancora un territorio da bonificare dai numerosi inquinanti. E gli abitanti della base Usa di Okinawa in Giappone ne denunciano quotidianamente da decenni l’impatto. Come avviene in Italia, con la ragnatela di strutture militari dotate anche di bombe nucleari.
L’USO DI SOSTANZE MICIDIALI è stato ammesso più volte. Nella devastante guerra del Golfo nel 1991, mentre le immagini dei pozzi incendiati e lo sversamento di petrolio fecero il giro del mondo, molto meno si seppe dell’uso da parte statunitense di missili con uranio impoverito, poi replicato dalla Nato in Bosnia, nei raid del 1994 e del 1995, e nella guerra alla Serbia nel 1999, con malattie sia fra i militari sia fra i civili («sindrome del Golfo» e «dei Balcani»). A Falluja nel 2004 le truppe di terra Usa fecero invece ricorso a un parente del napalm, il fosforo bianco.
LA NATO IN SERBIA RIVENDICÒ tranquillamente di aver bombardato («per ragioni tattiche e strategiche») l’enorme complesso industriale di Pancevo: raffineria, petrolchimico e fabbrica di azotati. La portata in termini sanitari e ambientali non è mai stata verificata. Come riferiva anni fa l’Osservatorio Balcani e Caucaso, secondo le stime del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, erano state rilasciate nell’ambiente 2100 tonnellate di dicloroetilene, 250 tonnellate di ammoniaca, 460 tonnellate di cloruro di vinile monomero, ma anche cloro, ossidi di zolfo e di azoto. Oltre a 8 tonnellate di mercurio confluite nel Tamiš, affluente del Danubio.
DISTRUZIONE DI ALBERI E RACCOLTI: ora il Programma alimentare mondiale (Wfp) si inquieta perché il 29% del commercio mondiale di grano proviene dalla Federazione russa e dall’Ucraina, ma pochi a Occidente si sono curati di milioni di alberi di pistacchio e viti morti in Afghanistan, vittime dell’abbandono o del taglio, nelle condizioni estreme di 40 anni di conflitto. In Siria l’Isis – figlio infernale della guerra – ha rivendicato la distruzione dei campi di grano nel Nord e il rogo degli uliveti e agrumeti sulla costa. E questo mentre sotto la pressione bellica si perdeva il recupero in corso di antichi semi e di metodi colturali più sostenibili. Anche l’acqua poi è un’arma di guerra e la Turchia, nostro alleato, la usa da tempo. L’Eufrate nei paesi a valle è quasi allo stremo. E quale impatto ambientale avrà, in Sahel, la partenza di chi fugge dal terrorismo lasciando dietro di sé i campi?
* Fonte/autore: Marinella Correggia, il manifesto
ph by Christiaan Briggs, CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, via Wikimedia Commons
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