Mineo, i rifugiati: “Siamo fuori dal mondo”

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Mineo (Ct) – “We are out of society”. Fuori dal mondo, si sentono così i richiedenti asilo del Centro di accoglienza di Mineo. “Siamo come in un hotel, mangiamo e dormiamo, ma non c’è la scuola di italiano, non c’è la commissione territoriale per esaminare le domande d’asilo, non abbiamo internet, né la televisione, c’è solo il telefono pubblico ma non abbiamo le schede telefoniche” racconta il pakistano Alì. Lontani chilometri dal primo centro abitato, Mineo, che sta sulla cima di una collina a due ore di cammino a piedi, circa 1600 rifugiati di varie nazionalità  ormai sono stati trasferiti stabilmente nel residence del ‘Villaggio degli Aranci’. La struttura è stata requisita dal governo alla ditta Pizzarotti di Parma ma nessuno conosce l’importo della cifra per la requisizione, né tantomeno il costo a persona pagato alla Croce rossa internazionale che gestisce il centro.

Le casette colorate in mezzo alla campagna, in fila sotto l’Etna imbiancato che si vede in lontananza, le palme lungo i viali, fanno sicuramente del centro di Mineo un Cara molto diverso dai campi container di altre zone d’Italia. Ma i richiedenti asilo trasferiti mostrano tutto il loro scontento, dovuto principalmente alla mancanza di informazioni sulla loro situazione e il loro futuro.
Dai racconti emerge una lunghissima attesa e anche la presenza di tanti pakistani fuggiti dalle violenze dei talebani, con la guerra in Afghanistan che ormai si è estesa oltre i confini, fino alla regione pakistana dello Swat, da cui sono scappati molti giovani. Tamur è uno di loro, passato attraverso l’Iran, la Turchia e la Grecia. E’ arrivato sulle coste calabresi su una grande nave da Patrasso come Aziz che invece è afghano. Hanno pagato 3000 euro a testa solo per il solo viaggio in barca. Tamur racconta di essere stato per otto mesi nel Cara di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto senza entrare in Commissione. Aziz invece, dopo 7 mesi aveva finito la pratica e aspettava la risposta della commissione territoriale ma è stato trasferito ugualmente e ora non sa nulla della sua richesta. Azar è un ingengere pakistano. Stesso percorso degli altri, da Patrasso è arrivato in nave in Italia. Approdato ad Ancona, è stato trasferito al Cara di Bari e dopo due mesi l’hanno portato a Mineo. “Tutti noi abbiamo paura perché non sappiamo che succede con la commissione – racconta – non abbiamo informazioni”.

Azar non si sente il benvenuto a Mineo. “Le persone non amano gli stranieri qui – dice – lo capiamo da come ci guardano dalle macchine quando camminiamo per la strada”. Wajid sostiene di essere stato nel Cara di Isola Capo Rizzuto per cinque mesi senza vedere la commissione per la richiesta d’asilo. Ha pagato 5mila euro per il viaggio in Italia, anche lui dallo Swat. I pakistani hanno alle spalle tutti storie simili, sono fuggiti dopo le aggressioni dei talebani che volevano reclutarli con la forza.

Ma a Mineo ci sono anche circa 500 eritrei sbarcati a Lampedusa dopo il viaggio in barca da Tripoli. C’è chi è nel centro con la moglie e i bambini piccoli, anche di pochi mesi. Due ragazzi di 25 anni raccontano di aver passato due anni in Libia di cui buona parte nelle carceri di Misratah e Kufrah. Alcuni erano stati respinti in mare nel 2009 dalle motovedette libiche dopo gli accordi del governo italiano con il dittatore Gheddafi. Poi sono stati arrestati dalla polizia, sono finiti in carcere, infine si sono ritrovati in mezzo alla guerra. “Siamo 500 eritrei resistrati come richiedenti asilo all’Acnur in Libia– raccontano – siamo arrivati 5 giorni fa e siamo come prigionieri qui ma non sappiamo perché”. Sabato scorso hanno ricevuto la visita del pastore eritreo don Mosè Zerai.

Infine sono solo 50 i tunisini rimasti nel centro. Avevano chiesto asilo politico per diverse ragioni. Uno di loro spiega che lavorava in un’agenzia turistica italiana e faceva la guida a Zarzis. Aveva due fratelli poliziotti uccisi durante la rivoluzione. Anche lui per lavorare aveva appoggiato il regime di Ben Ali e ora è fuggito perché in Tunisia teme per la propria vita.  (raffaella cosentino)

 

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