Giusto salvare il Dittatore? Per l’Occidente il rebus dell’esilio

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Con il passare del tempo appare sempre più chiaro che il Consiglio di sicurezza fu troppo precipitoso, il 26 febbraio scorso, quando, con la risoluzione numero 1970, tra l’altro chiese alla Corte penale internazionale di indagare eventuali crimini di guerra o contro l’umanità  commessi a partire dal 15 febbraio 2011 da Gheddafi e dai suoi accoliti. Si sottovalutò la forza militare del dittatore e l’inefficienza degli insorti. Si pensò che, ventilando una sua possibile incriminazione dalla Corte dell’Aja, lo si potesse indurre a porre termine ai suoi misfatti e prevenirne altri. Oggi, con il senno di poi, possiamo dire che talvolta la giustizia penale deve essere come la filosofia, di cui Hegel diceva che, al pari della nòttola di Minerva, inizia il suo volo solo sul far del crepuscolo. Che fare ora, visto che si è affrettatamente messo in moto un meccanismo giudiziario ma, alla luce degli eventi, appare invece opportuno consentire al dittatore di ritirarsi in esilio, e così porre termine alle uccisioni e devastazioni, da una parte e dall’altra. I due corni del dilemma sono: promuovere il cessate il fuoco e poi la pace, ma assicurando l’impunità  di Gheddafi all’estero; oppure proseguire imperterriti sulla strada prescelta, incentrata su due misure (l’intervento militare collettivo e l’eventuale futura incriminazione penale), con il rischio gravissimo di un logoramento progressivo della situazione, il moltiplicarsi delle vittime, e il sempre più accentuato coinvolgimento della Nato, possibile foriero di gravi complicazioni internazionali. È chiaro che è la prima opzione che va prescelta, se ci stanno a cuore la vita umana e la pace. Ma la comunità  internazionale non può rimangiarsi la conclamata lotta contro l’impunità . Né Gheddafi accetterebbe una decisione che pure il Consiglio di sicurezza potrebbe adottare, quella di sospendere per un anno (rinnovabile) qualsiasi procedimento penale contro il dittatore e il suo gruppo. Una assicurazione limitata di impunità  non gli basterebbe. L’unica soluzione risiede dunque nel consentire subito a Gheddafi e ai suoi fedeli di rifugiarsi in un Paese africano che non solo non fa parte dello Statuto della Corte penale (e dunque non ha alcun obbligo di cooperazione con la Corte), ma è anche abbastanza stabile da garantire al dittatore libico un rifugio non provvisorio. Certo, con questa soluzione alla giustizia penale rimarrà  l’amaro in bocca. D’altro canto, se è vera la massima, prospettata dal già  citato filosofo, «si faccia giustizia perché il mondo non perisca» (fiat justitia ne pereat mundus), deve essere vero anche il contrario, e cioè che la giustizia non può essere istituita o promossa quando ricorrere ad essa mette palesemente in pericolo il mondo o, come in questo caso, tantissime vite umane, ed inoltre può innescare una spirale di violenza dagli esiti imprevedibili e pericolosissimi.


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