A Lampedusa è il giorno della guerriglia “Incendiamo tutto, così ci fanno partire”
LAMPEDUSA – Sull’isola di Lampedusa ce ne sono ancora quasi quattromila. E sono allo stremo. Sfiancati dalle notti al freddo, affamati, snervati da un traghetto che non arriva mai sono tutti in rivolta. Colpa del maestrale e colpa di chi li ha lasciati lì, come animali all’ammasso in una prigione a cielo aperto. Senz’acqua per lavarsi e un mangiare da schifo, una collina come cesso e le chiglie dei barconi per riparo, nessuno potrà mai capire perché oggi non c’è stata sommossa violenta ma solo prove generali di guerriglia. Per fortuna, al tramonto, la nave militare San Marco si è avvicinata alla costa per caricarne cinquecento e portarli via. È salpata di notte per Civitavecchia. Se oggi però non se ne andranno tutti, qui nell’isola scoppierà il finimondo. Dipenderà dal mare. Dipenderà dalla sopportazione dei disperati su quest’avamposto d’Europa che sta diventando un’infamia. È cominciata male l’ultima giornata di Lampedusa in attesa del vento che gira e con la «Superba» ancorata dietro Cala Creta che non riesce ad attraccare. «C’è onda», dicono alla Capitaneria. «C’è onda», ripetono sul molo i poliziotti comandati per tenere a bada la folla dei tunisini che spinge e urla. Tante teste ricce uno dietro l’altra, occhi arrossati di sonno e di polvere, folate di nafta e salsedine, i gabbiani in picchiata sui rifiuti della collina del disonore e la stazione marittima bivacco a cinque stelle per i più forti e i più prepotenti della ciurma. Poi il primo corteo di protesta. Poi il secondo corteo di protesta. «Libertè, libertè», gridano. All’improvviso il fumo e il fuoco. Brucia la biglietteria dell’Ustica Lines che è una roulotte parcheggiata sul molo, una bombola che esplode, le fiamme che sfiorano il rimorchio della Protezione civile. Altre urla: «Il fuoco, il fuoco ci farà partire». Qualcuno fugge, qualcun altro circonda chi ha accesso la miccia e lo consegna ai carabinieri. È solo il primo atto dell’ammutinamento. Arriva il bollettino meteorologico: il vento sta calando. Passa un’ora ma il vento non cala. Monta l’ira sul molo. Una rissa, un’altra rissa. Calci, pugni, un fumogeno color arancio in mare. Il funzionario di polizia Corrado Empoli – una sorta di «sindaco» nominato sul campo dai ragazzi venuti dal mare – si fa avanti e spiega pazientemente a tutti che oggi lasceranno l’isola. È dalle 7 del mattino che la «Superba» è lì per trasportarne almeno duemila. E poi stanno facendo rotta verso l’isola anche la «Clodia», la «Flaminia» e la «Catania». Ma il maestrale non cala. E il molo ribolle. Arrivano i camion con il cibo. Fischi, un applauso di scherno. Tutti i ragazzi si sdraiano sulla banchina, i camion non passano. È lo sciopero della fame. Un’altra ora e la fame fa passare lo sciopero. La solita fila, cinque per volta a sinistra, cinque al centro e cinque in fondo. Il solito menu: un riso al sugo, due panini, oggi una merendina al posto della mela di ieri e dell’altro ieri. Quando i primi ragazzi mandano giù la prima cucchiaiata di riso è l’inferno. Il riso puzza. I ragazzi si scaraventano dalla collina al molo per farlo odorare ai poliziotti e ai giornalisti. Lanci di piatti, qualcuno piange. Khaled mostra il suo piatto di riso e dice: «Nemmeno nei campi profughi fra la Libia e la Tunisia danno questa roba da mangiare». Il direttore del centro di accoglienza di Lampedusa Cono Galipò lo assaggia davanti alle telecamere: «È buono, è buono». I ragazzi tunisini sono furiosi e lo circondano e i poliziotti circondano loro. L’abile mediazione dei funzionari della Questura di Agrigento riporta la pace sulla banchina. È una guerra psicologica, da una parte dell’altra si combatte con i nervi mentre i carabinieri sono già schierati in tenuta antisommossa. In disparte ci sono sette uomini della Protezione civile, alcuni vengono da Siracusa e altri da Sambuca di Sicilia, un paesino della provincia di Agrigento. Quattro giorni fa sono scesi dal traghetto con i loro gipponi. E con una luccicante cucina da campo per 2 mila pasti al giorno. E con duecento tende per farci dormire dentro almeno in tremila. E con bagni chimici per altri duemila. È tutto nascosto in un camping, dall’altra parte dell’isola. Quelli della Protezione civile hanno avuto ordine di non fare niente e di non montare niente. Se ne stanno fermi lì al porto, ogni tanto danno una mano a distribuire il riso fetido. Sono le 5 del pomeriggio e ormai è chiaro che la «Superba» non salperà più da Lampedusa con il suo carico. Sul molo la rabbia monta un’altra volta e finalmente qualcuno decide di prendere le motozattere della Marina Militare e trasbordare cinquecento ragazzi sulla «San Marco». È già sera quando cominciano le operazioni d’imbarco e quando un’altra paura s’impadronisce dei tunisini. Vedono la nave militare e si spaventano, sospettano che quella nave li riporti a Tunisi. In trecento strappano i ticket con il numero, l’ordine della fila per salire a bordo. Preferiscono restare qui che rischiare di tornare sull’altra riva del Mediterraneo. Quando alcuni di loro sono già sulle zattere della Marina, nel buio parte l’ultimo lancio di sassi e si accende l’ultimo rogo.
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