Boicottare i guerrafondai

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Negli anni 1950 l’economista gandhiano C. J. Kumarappa suggerì – in una conferenza internazionale – alle nazioni con volontà  di pace di boicottare in massa le produzioni degli Stati Uniti per interromperne la politica imperialista (era in corso la guerra di Corea). In seguito gli appelli al boicottaggio si sono rivolti ai popoli, più che alle nazioni e ai governi (i quali hanno piuttosto praticato embarghi, e sempre da posizioni di forza). Ma hanno avuto poco seguito. Eppure, se le cause delle guerre sono economiche e geo-strategiche, il colpire economicamente i responsabili diretti e indiretti ha un senso e sicuramente un’utilità  maggiore rispetto alle manifestazioni anche oceaniche e alla vendita ed esposizione di milioni di bandiere per la pace (nel 2003, quando la «seconda superpotenza mondiale», il movimento pacifista, non scalfì i piani sull’Iraq).
Già , ma quale paese o multinazionale scegliere di boicottare contro le guerre globali, magari condotte per procura e da tempo spacciate per iniziative pressoché umanitarie? E qui tutto diventa più difficile; con la parziale eccezione del «non acquisto» dei prodotti israeliani, facilmente circoscrivibile a un paese e ad alcune aziende.
Dal 1991, le guerre in Iraq, Kosovo, Afghanistan e Libia sono state condotte da «coalizioni di volonterosi». Fra questi – sempre – l’Italia, la Gran Bretagna e gli Usa. E’ certo che senza questi ultimi le iniziative belliche non ci sarebbero state (alla fine vale anche in quest’ultimo caso, tanto più se si passerà  alle truppe di terra o all’invio vero e proprio di mercenari). Ma più che «boicottare gli Usa» come paese, l’idea è stata quella di mirare a quelle multinazionali che sono simbolo di imperialismo anche culturale, a quelle compagnie che sostengono le campagne elettorali dei presidenti e alle corporazioni del complesso petrolifero.
Così nel 1991 soprattutto nel mondo arabo e nel Sud del mondo (ma sparuti gruppi anche nel Nord)
girò l’invito a non comprare Coca Cola, Pepsi e McDonald’s. Nel 1999 i belgradesi in protesta contro gli attacchi aerei ottennero la chiusura dei fast-food statunitensi. L’iniziativa più articolata ha riguardato la guerra contro l’Iraq nel 2003: con la campagna internazionale «Boycott the war» detta anche «Boycott Bush», avviata dall’organizzazione ecologista belga For Mother Earth. Obiettivo erano le multinazionali che avevano sponsorizzato la campagna elettorale di George W. Bush: Esso, Texaco, Chevron. Marlboro, Coca Cola, Fanta (veramente c’era anche Big Pharma). Tre i messaggi chiave: «Non vogliamo che il nostro denaro sia usato per la guerra»; «Con questo metodo nonviolento vogliamo esercitare una pressione sul governo Usa e sulle forze economiche che lo sostengono»; «Proponiamo in alternativa l’acquisto di prodotti ecosociali».
In effetti il boicottaggio «ragionato» porta alla dissociazione dalle cause delle guerre per il petrolio e in generale per l’accaparramento di risorse reso necessario da un’economia della pletora e dello spreco. Si tratta di lavorare e vivere in modo da cambiare il modello, alimentare, energetico, dei trasporti, dell’obsolescenza programmata dei beni (anzi mali). La dissociazione economica individuale e collettiva dalle guerre di Bush/Clinton/Obama e compagni si potrebbe stavolta arricchire con una campagna per il ritiro del premio Nobel per la pace a Obama.


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