Mussa Kussa e gli altri “traditori” il regime del raìs può franare dall’interno

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Bengasi – alternando avanzate e ritirate, a turno. Il raìs deve essere spennato nel suo pollaio. L’espressione non è mia. Me ne sono appropriato conversando con i responsabili libici del Consiglio nazionale di transizione, il governo provvisorio, euforici per la diserzione di Mussa Kussa, il ministro degli Esteri che se l’è svignata da Tripoli, con la scusa di una grave depressione nervosa e di altri malanni. Gheddafi gli avrebbe dato il permesso. Vai pure in Tunisia, là  ti possono curare. Il raìs non poteva che fidarsi del suo confidente, un fedelissimo, per una decina d’anni depositario di tutti i segreti, complice di tutte le trame, complotti, attentati del regime, in quanto responsabile dell’intelligence, quindi capo dei mukabarat, poliziotti-spie, più numerosi degli scarafaggi in tutte le dittature del Maghreb e del Makresh. E poi ministro degli Esteri. Un uomo alto, snello, non privo di eleganza, con lo sguardo da uccello predatore. Questo è il ritratto che mi fanno del transfuga. Tutti sostengono adesso di averlo visto, magari solo alla televisione, accanto al raìs. Mussa Kussa ha dunque raggiunto la Tunisia con la benedizione di Gheddafi, che non poteva immaginare di darla a un disertore. Nell’isola di Djerba ha incontrato emissari francesi, e poi ha preso l’aereo per Londra. Dove l’hanno accolto a braccia aperte, in quanto depositario di notizie e segreti essenziali sulle condizioni del raìs che aveva appena tradito; e al tempo stesso senza indulgenza, perché a suo carico c’è una lunga lista di imputazioni. Mussa Kussa era (ed è) il numero due sull’elenco dei dirigenti libici da giudicare. Subito dopo Gheddafi c’era e resta lui. Tra le accuse c’è anche quella di essere stato uno dei promotori dell’attentato all’aereo della Pan Am esploso su Lockerbie, in Scozia. Erano i tempi in cui il terrorismo era una delle attività  predilette dalla Libia. Più tardi Mussa Kussa fu rivalutato dalle cancellerie occidentali, ma non assolto dai precedenti reati. A lui, come ministro degli Esteri, fu attribuito il merito di avere convinto Gheddafi a rinunciare al nucleare. Rinuncia che riportò la Libia in società . Non per molto, ma abbastanza a lungo per consentire a Gheddafi di erigere le sue tende a Parigi, a due passi dal palazzo presidenziale dell’Eliseo, e di ricevere il devoto baciamano del presidente del Consiglio italiano, trasformato in cortigiano. Il fatto che a svignarsela sia stato il ministro degli Esteri, oltre che il grande confidente del raìs, ha un’importanza particolare. Mussa Kussa sapeva, più di qualsiasi altro a Tripoli, che non c’erano vie di scampo. Era questione di tempo, ma il raìs e i suoi diretti collaboratori (figli, parenti, ministri e generali) sarebbero finiti, nel migliore dei casi, in mano alla giustizia internazionale. Ex capo dei servizi segreti, Mussa Kussa non ignorava certo le possibili trame latenti o già  in atto, a Tripoli per liberarsi di Gheddafi. Era l’uomo più adatto per immaginare o intravedere i complotti di palazzo, e le defezioni delle tribù, in particolare quella dei warfalla, ancora impegnati a fianco del raìs. È facile ricostruire quello che passava per la testa di Mussa Kussa quando ha pregato il raìs di concedergli il permesso di andare a farsi curare in Tunisia. Resta invece il dubbio che sia attendibile la versione di Tripoli, ossia che il ministro degli Esteri se n’è andato legalmente, con l’autorizzazione di Gheddafi. Potrebbe essersene andato di nascosto, anche se l’impresa era difficile. Ma la Tunisia, appena liberatasi di Ben Alì, il suo detestato raìs, era un rifugio sicuro per un fedele di Gheddafi? C’è un’altra defezione di rilievo, che conforta i ribelli di Bengasi, in queste ore depressi dalle sconfitte sul terreno. Ed è quella di Alì Abdessalam el-Treki, ex ministro degli Esteri, designato da Gheddafi rappresentante libico all’Onu, in sostituzione del titolare che aveva dato le dimissioni, non volendo più servire il raìs. El-Treki si è a sua volta reso latitante. Adesso si troverebbe in Egitto. E le Nazioni unite rifiutano di accreditare il nuovo rappresentante libico, la cui nomina non è considerata valida essendo stata decisa da Mussa Kussa che non è più ministro degli Esteri. Quando affermano che Gheddafi finirà  con l’essere spennato nel suo pollaio, i ribelli di Bengasi pensano che egli sarà  via via tradito dai suoi, abbandonato dai soldati, che presto si convinceranno che il regime di Tripoli non può sopravvivere a lungo. «Si scioglierà  come il burro nella sabbia bollente». Neppure le truppe impegnate sulla «strada della rivoluzione», quella da Bengasi a Tripoli, possono rovesciare la situazione. Non hanno scampo neppure loro. Ottengono facili successi sui ribelli male armati e disorganizzati ma si tratta di vittorie effimere, perché non hanno alcuna possibilità  di riconquistare la Cirenaica. Gli aerei della Coalizione, adesso sottoposti al comando della Nato, non glielo consentirebbero. Quindi il campo di battaglia, qual è la strada litorale, dritta come una spada per mille chilometri nel deserto, è di fatto una trappola. Su questo sembra basarsi la strategia della Nato, da ieri responsabile militare dell’operazione. Dal comando di Napoli, il generale canadese Charles Bouchard, sostiene che non saranno le armi a far crollare Gheddafi. Il suo regime si disintegrerà . Gli alleati, anche se insoddisfatti, si adeguano. Compito della Coalizione, dice il generale canadese, è di proteggere la popolazione civile. Non di fornire armi ai ribelli. Gli americani hanno già  sul terreno gli uomini della Cia, il cui compito è di fornire informazioni all’aviazione e di tener d’occhio i ribelli. Anche l’intelligence inglese (MI6) è presente in Libia. Ma nessun militare occidentale calcherà  il suolo di questa sponda del Mediterraneo. La filosofia imperante è che Gheddafi crollerà  da solo. Ottimisti e pessimisti annunciano tempi diversi.


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