“Basta con i miei pupazzi la festa è finita, mi ritiro”

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MILANO – Dopo la retrospettiva che il Guggenheim di New York gli dedicherà  in ottobre, non ha un singolo appuntamento in agenda. «Mi avevano chiesto altre mostre itineranti a Minneapolis, a Los Angeles e nel Nebraska, ma ho detto di no. Ho bisogno di chiudere un ciclo. Considero finita questa esperienza di lavoro cominciata un ventennio fa. Non realizzo un’opera nuova da due anni». Perché, intanto, l’autore dei fantocci-bambini impiccati, del papa colpito dal meteorite, di Hitler in ginocchio, dello scoiattolo suicida, del dito medio che ancora svetta in piazza Affari, ha deciso di impegnarsi solo in una rivista di fotografia: Toilet Paper. Il secondo numero è stato lanciato a Milano dalla Fondazione Trussardi, con festa in una balera stile anni Settanta e orchestra di liscio. Stanotte, Cattelan e il cofondatore Pierpaolo Ferrari la presentano al Cabaret Voltaire di Zurigo, lo stesso dove è nato il dadaismo. «Lavorare a Toilet Paper mi ha dato una carica che non avevo da molti anni. Non riuscivo a capire come fosse possibile che un magazine mi interessasse più della preparazione di un evento come quello del Guggenheim. Poi la risposta mi è venuta. Devo lasciare». Nancy Spector, la curatrice del Guggenheim, si è stupita più di tutti. «Ma come è possibile che tu voglia farlo? – gli ha detto – Pensavo di ritirarmi prima io». E invece no. Cattelan d’ora in poi preferisce andare in bicicletta lungo il fiume e tornare ad alzarsi senza impegni nel suo appartamento-stanza di Chelsea, dove ci sono: «il materasso dello studente» messo a terra, due sedie e un tavolo. Ma è proprio sicuro di lasciare? «Prima che mi succeda di ripetermi con le mie idee, mi fermo. Se fossi un imprenditore, sarebbe questo il momento buono in cui darmi a una produzione intensificata di opere, ma non mi interessa. Non ho mai inflazionato il mercato, sono i miei lavori che hanno ottenuto sempre tanta visibilità . Eppure non ne ho realizzati più di due all’anno». Perché vuole smettere? «È una presa di distanza da tutto: dal mercato, dalle polemiche. Si tratta di rinegoziare il mio essere all’interno di un sistema e ribadire un’indipendenza che ho sempre cercato». Cos’è che le dà  fastidio? «La critica non perdona quando incominci ad avere visibilità , quando vendi, e in realtà  lo capisco: dà  fastidio anche a me. È una sorta di macchia, alla fine. L’arte mi ha reso libero, mi ha evitato la galera e una vita fatta di espedienti. Col tempo però ti ritrovi con un abito cucito addosso e diventi quello che non vorresti essere». Non le piace essere al centro del mercato? Ma non è una componente essenziale dell’arte contemporanea? «Col mercato ho un rapporto conflittuale. In realtà , tutti, al di là  del lavoro che facciamo, siamo soggetti al mercato. Nel mio caso, però, si tratta di un mercato “ormonato”, dove comunque non sono gli artisti a far lievitare i prezzi. Quindici anni fa, l’arte contemporanea non era così: oggi, se non sei oggetto di speculazioni economiche, non vieni considerato di qualità . La vera anomalia è questa: il prezzo alto di un’opera è diventato il certificato di qualità . Ma sui dollari c’è scritto “in God we trust”, non “in cash”. Le case d’asta sono diventate sempre più aggressive, anche a causa della debolezza delle gallerie». Non vuole più essere l’artista delle polemiche? «Io non cerco la polemica di proposito. La polemica può essere un ingrediente, ma nemmeno quello essenziale. L’installazione dei bambini impiccati alla quercia, in piazza XXIV maggio a Milano nel 2004, era un lavoro pessimo dal punto di vista del manufatto, eppure ci fece scoprire la forza della piazza. Il dito medio è una posizione, non una provocazione. Sarebbe bello rimanesse sempre lì, in piazza Affari, dove si presta a più livelli di lettura. Non c’è nessun museo migliore, neppure l’area rinascimentale del Louvre. Per me qualsiasi cosa scateni un cambiamento, una mutazione di sguardo, è arte». Il dito resterà  davanti alla Borsa fino a settembre. «Doveva rimanere lì una settimana, poi un mese… ma resiste ancora. Chissà ». Quando ha cominciato a considerarsi un artista? «Mi sono sempre considerato un intruso nel mondo dell’arte. All’arte sono arrivato per vie traverse e, allo stesso modo, posso uscirne. Le cose sono cambiate alla fine degli anni Novanta. La nona ora (la scultura iperrealistica che ritrae papa Wojtyla colpito da un meteorite) ha segnato all’esterno la riconoscibilità  e all’interno l’accettazione di un ruolo. Ma io non sono mai nato artista. Non so dipingere, né scolpire. Progetto idee e seguo i collaboratori per concretizzarle. Le mie opere le odio tutte in particolare. Non sono legato a loro, ma al processo: al momento che sta tra il desiderio di realizzare un lavoro nuovo e la decisione di farlo davvero. È un attimo impagabile, da non condividere con nessuno». Nemmeno al Guggenheim presenterà  un’opera nuova? «La maniera in cui saranno disposti i 120 lavori in mostra sarà  l’opera nuova. Cercherò di evitare l’effetto parcheggio. Il Guggenheim è un museo difficilissimo, enorme, perfetto per entrarci con la macchina. Se non fosse per New York e per il fatto che si tratti del Guggenheim, non lo prenderei mai in considerazione». Non le piace l’architettura contemporanea? «Mi piacciono gli architetti con l’ego minuscolo. Quelli che quando disegnano un teatro o un museo lo fanno perché sia funzionale alla musica o all’arte e non per celebrare il loro successo. La Kunsthaus di Bregenz, in Austria, è il modello perfetto. Ma ho un debole per gli spazi “d’annata”: il Castello di Rivoli, il Palazzo delle Esposizioni a Roma…». È felice di lasciare? «Sono contentissimo. Mi sento come quel giorno, nell’85 a Padova, quando mi licenziai dall’ospedale in cui facevo l’infermiere. Non so se ho quella stessa energia, ma quell’entusiasmo sì». Ha lavorato in ospedale, anche all’obitorio… «È stato il più silenzioso dei miei lavori e anche il meno drammatico, dentro all’ospedale. Lavoro da 35 anni, ho cominciato a 16. Ora mollo e cambio di nuovo. Magari è un gesto difficile, ma mi fa sentire ancora vivo».


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