Simbolo della non violenza, premio Nobel per la Pace
RANGOON – Gli ultimi giorni dell’inverno graziano con una piacevole brezza la solitamente torrida e polverosa capitale birmana. Ma dentro i grandi magazzini che sorgono come funghi, la folla cerca ulteriore refrigerio nell’aria condizionata, girando tra asettici scaffali di merci destinate a ben pochi di loro. A Shwegondaing, lontano dalla nuova Rangoon del commercio, la sede della Lega nazionale per la democrazia del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi sembra un pezzo di passato remoto, con le sue mura mai riverniciate, le scale coi tappetini consunti, i soliti anziani attivisti e leader passati da mille prigioni abbigliati come gran parte del popolo, in semplici gonne longy e camicie bianche senza collo. C’è chiasso e folla quando Daw Suu, The Lady, è presente in sede, altrimenti sembra un desolante deposito dei Mercati generali. La leader dell’Nld, da quattro mesi liberata dagli arresti domiciliari, ci riceve in un salottino lindo con un divano, una poltrona e una scrivania. Ha appena finito un meeting, e presto ce ne sarà un altro. Le chiediamo subito se nonostante la libertà di movimento si consideri ancora, come disse, «prigioniera» nel suo stesso Paese. «Si, sono ancora prigioniera, ma non posso parlare per me sola. Io ho imparato a trovare la libertà dentro me stessa quando ero sola agli arresti. Però vede, ciò che non rende libero il mio popolo è principalmente la paura. Non c’è solo il problema dei 2.220 prigionieri ancora nelle celle. La paura è diventata la prigione di tutti». Nei giorni scorsi il suo partito ha chiesto un incontro con la Giunta militare per “chiarire le incomprensioni” prima della formazione del nuovo governo. Pensa che i nuovi generali siano più aperti dei predecessori? «Dobbiamo lasciare a tutti il beneficio del dubbio, ma dobbiamo essere consapevoli che le cose non cambiano perché vogliamo che cambino». Qual è la ragione per cui a molti mesi dal voto non sono stati affidati i nuovi incarichi ai ministri e c’è un presidente, ma non ancora il premier? «Non lo so. Ci sono così tante speculazioni (ride). Qualcuno ipotizza ragioni astrologiche, l’attesa di un giorno d’auspicio, altri dicono che non riescono a trovare un accordo su come assegnare i posti». Il nuovo Parlamento, grazie alla prassi delle interrogazioni, avrà informazioni che prima era impossibile reperire. Non pensate di entrarvi, per esempio alle prossime elezioni di novembre per sostituire 40 deputati “rimossi”? «Sì, potremmo, ma non sappiamo se le regole lo permetteranno. Quel che sappiamo però è che la parodia della democrazia è peggio della dittatura, perché la gente ha la scusa di non fare niente. Pensano: ecco, c’è il Parlamento, c’è la democrazia, non c’è altro da fare. Ma da quanto vedo, non posso dire che questo governo e questo Parlamento siano davvero democratici». Per esempio sulle sanzioni occidentali contro la giunta, oltre 600 hanno votato contro e solo 9 erano astenuti o contrari.. «Esatto. Ma poi per cosa votano? Dovrebbe essere il Parlamento del Paese che le impone a dover votare… quindi mi sembra che facciano solo un grande spettacolo. Ad esempio a un deputato che ha proposto l’assistenza sanitaria gratuita è stato detto di ritirare la mozione». Lei è sempre rimasta a Rangoon, e non vuole muoversi. Perché? «Ho così tanto lavoro qui con sette anni di arretrato! No, non temo ripercussioni ai miei spostamenti. Se riterrò i tempi maturi per uscire da Rangoon uscirò». Nel 2003 il suo primo viaggio nel Nord fu interrotto dai pro-governativi e ci furono molti morti. Lei non disse mai se rimase ferita come si temeva. «Ebbi tagli leggeri, quando ruppero i vetri della mia auto. Niente di serio». Ricevete ancora rapporti sul lavoro forzato? «Sì, continuamente, di bambini soldato, di lavoro forzato, in tutto il Paese». Durante la rivoluzione di Zafferano i monaci, affamati come il popolo, rinunciarono a prendere cibo dalle famiglie dei generali. Ancora rifiutano? «Qualcuno rifiuta, ma molti le prendono. La situazione economica resta difficilissima in tutto il Paese anche se girando per strada a Rangoon l’unica vera differenza evidente tra allora e oggi sono i telefoni cellulari. La gente è più in contatto l’una con l’altra, c’è più comunicazione e questo è importante». Ma i telefoni sono cari e il governo taglia anche le comunicazioni economiche come Skype. Non dipenderà anche dalle sanzioni? Forse potreste chiedere un alleggerimento per questo settore. «Non credo. Anche in molti Paesi dove non ci sono sanzioni i governi limitano ugualmente la comunicazione. Quanto alle polemiche sugli embarghi e la loro inefficacia, se i nostri standard economici sono così cattivi, i peggiori dell’Asia, la colpa è del nostro governo, non delle politiche degli altri, come ha detto chiaramente il Fondo monetario». Lei crede nel principio del Buddha secondo cui tutte le cose sono impermanenti. Ma dopo 49 anni al potere i militari sembrano contraddirlo… «Ci sono molte ragioni. La più diretta è ancora la paura della gente. Per esempio in Sudafrica la paura è stata vinta perché era un Paese nero in un continente di neri, con una coscienza comune contro l’apartheid dei bianchi. Ma qui in Birmania siamo circondati da Paesi più interessati a fare business con il governo che ascoltare la propria coscienza e aiutare la gente». In queste elezioni avete rinunciato a partecipare perché non esistevano garanzie. Però teoricamente anche nel ‘90 non sapevate di poter vincere… «No, io sapevo, avevo girato prima degli arresti domiciliari dell”89 e sapevo che avremmo vinto. Ma stavolta le regole erano molto diverse. Ci richiedevano di difendere la Costituzione dell’2008, di rigettare le elezioni del ‘99, di espellere tutti i nostri membri in prigione. Inaccettabile». Con molti dirigenti sotto processo o agli arresti l’Nld è di fatto un Partito illegale? «Infatti stiamo portando il nostro caso alla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite». Potrebbero decidere una no-fly zone sulla Birmania? Ride: «No, ma faranno un rapporto e daranno il loro parere… Seriamente, spero che non diventi come la Libia, sarebbe molto triste per il mio Paese. Abbiamo scelto la strada della non violenza perché pensiamo che c’è già stata molta violenza nel passato e questi golpe militari sono violenti per natura». Ma in Egitto c’è stato qualche risultato. «Perché in Egitto l’esercito non ha sparato sulla gente. A differenza della Libia e della Birmania». I vostri dirigenti hanno grande esperienza ma sono molto anziani. Ci sono ingressi di giovani nei gruppi dirigenti? «Sono loro a fare gran parte del lavoro, a metterci l’energia». Avete ricevuto supporto dall’Italia? «Ho molto apprezzato il supporto del popolo italiano e il fatto che in molti centri è stata sostenuta la causa dei nostri prigionieri politici facendoli cittadini onorari. Ma spero che anche il governo possa sostenerci». Non lo fa? «Non come vorrebbe la vostra gente. Ma è una democrazia, giusto? Dovrebbe essere il popolo a dirgli cosa dovrebbe fare».
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