Tra i dissidenti di Damasco “Per Assad l’ultima chance libertà  o sarà  il disastro”

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DAMASCO – Però, basta allenare lo sguardo per accorgersi della presenza, discreta, della polizia in borghese: come quel gruppetto di uomini che stazionano sul crocicchio infagottati nei giubbotti in pelle nera, impegnati a sorvegliare certi snodi nevralgici. Del resto questa è la stagione di un’inedita sfida al governo baathista siriano: la prima dall’insurrezione armata degli islamisti negli Anni Ottanta. Il bilancio degli scontri ora è di 36 morti ufficiali (126 nelle stime degli attivisti). A Dera’a la protesta non si smorza. Le forze dell’ordine, secondo i ribelli, ieri hanno sparato per disperdere i dimostranti: una ricostruzione che la Sana, l’agenzia governativa, respinge. Mentre a Latakia sono quasi tutti concordi nel descrivere un ritorno alla normalità . Qui nel cuore della capitale, nella piazza Omayyadi dove il labirinto dei suq sbocca di fronte alla Grande moschea, in quella che una selva di sms in arrivo da telefonini libanesi (ricevuta anche dal cronista subito dopo l’atterraggio) vorrebbe trasformare nella piazza Tahrir damascena, si attardano solo negozianti e frotte di turisti europei. Fuori delle botteghe, i televisori accesi sono sintonizzati sulla tv di Stato. C’è grande attesa per il discorso del presidente Bashar al Assad, che potrebbe arrivare a ogni ora. I siriani di entrambi i campi – riformisti o filogovernativi – aspettano dal presidente una chiara indicazione del percorso da seguire per uscire dallo “status quo”: formula ricorrente nel “lessico rivoluzionario” per indicare un quinquennio di ritardi nelle riforme promesse. L’elenco dei cambiamenti prospettati è lungo, come quello delle richieste definite «legittime» dalla stessa portavoce di Assad: la fine della legge marziale imposta ai siriani dall’avvento dei baathisti al potere nel 1963, il varo del pluralismo politico, la fine degli arresti arbitrari, la libertà  d’espressione e di stampa, la lotta alla corruzione, la liberazione dei prigionieri politici, e lo scioglimento del poco amato governo del premier Naji Al Otari, irremovibile dal 2003. Che lo “status quo” sia divenuto «un pericolosissimo pantano in cui si rischia di sprofondare tutti assieme, sia il regime sia la nazione», come dice il politologo Thabet Salem, è evidente anche alla parte dei modernizzatori nella cerchia del governo. I quali s’aspettano che oggi venga abrogato, fra l’altro, il monopolio politico del partito Baath, incontrastato da quasi un cinquantennio. Sarà  una svolta gradita, e dal prezzo non troppo elevato, se è vero che il Baath è «considerato con una certa antipatia persino dal palazzo presidenziale», come dice Ayman Abdel Noor, ex giovane baathista trasmigrato verso i ranghi della dissidenza. «È un partito fondato prima della nascita di Bashar al Assad: è superato, invecchiato, non rappresenta più la società ». Abdel Noor ricorda come già  nel 2005, in occasione dell’ultimo grande Congresso, al Assad «lo abbia privato del potere. Già  agonizzante, gli ha staccato l’ossigeno per accelerarne la scomparsa». Oggi, secondo il dissidente, «il Baath è soltanto una maschera utile a una parte del regime». La prova del nove, avvisa però Abdel Noor, verrà  dalla normativa sui partiti politici: «E cioè se questa autorizzerà  un autentico multipartitismo». Così come «la fine dello stato d’emergenza», avverte ancora, «dovrà  coincidere con l’abrogazione dei decreti che garantiscono l’immunità  alle forze della sicurezza». Abdel Noor ripete con parole più o meno simili l’attesa condivisa da più parti: «Il presidente oggi ha davanti a sé un’immensa occasione: quella di passare alla storia come il leader che ha traghettato la Siria verso la modernità  e la democrazia. Lo spiraglio è ancora aperto. Ma il tempo stringe». Quanto tempo calcola? Ad ascoltare il dissidente, «resta una manciata di giorni, non di più. Poi lo spiraglio si chiuderà ».


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