Non solo mafia, trent’anni di depistaggi

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No, per Peppino hanno scelto come ambiente la linea ferrata, fra le sue mani il tritolo. Il ritrovamento della vittima che incolpa se stessa. Una scena del crimine molto militare. Cominciando da lì – da quello che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi – qualcuno oggi ha il sospetto che a volere morto Peppino Impastato non sia stato solo Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi che in Sicilia era una potenza e dal dopoguerra aveva regolato il traffico degli stupefacenti con l’America. Troppo diversa quella tecnica omicidiaria. L’omicidio di mafia – sia esso “preventivo” o “dimostrativo”, quelli del primo tipo ordinati per eliminare un pericolo per l’organizzazione, quegli altri per produrre paura – serve sempre a far capire a tutti chi è stato a volerlo. È la forza del segnale, dell’avvertimento. «Gli omicidi di matrice mafiosa presentano caratteri strutturali talmente singolari da costituire una categoria assolutamente autonoma, non assimilabile ad alcun’altra nell’intero panorama criminale», viene riportato in tutte le motivazioni delle sentenze delle corti di Assise del distretto giudiziario palermitano. La scena del crimine inconsueta – quasi più da “operazione” che da vendetta mafiosa – e poi un’inchiesta contraffatta per sostenere la tesi dell’attentato finito male. Con le indagini concentrate, sin dalle prime ore, esclusivamente sulla ricerca di prove contro la vittima. Come in un verdetto già  scritto: Peppino è stato “suicidato” subito. Da magistrati. Da carabinieri. Da testimoni reticenti. Prove scomparse, indizi cancellati, le sue carte (come raccontiamo nell’articolo accanto) prelevate da uomini in divisa e mai più ritrovate. Un inquinamento investigativo a tutto campo, percepibile dai primi sopralluoghi e dalle prime informative trasmesse alla procura della repubblica. Troppo sproporzionato quel depistaggio per proteggere solo un mafioso – seppure un mafioso importante, di peso – come Badalamenti. C’era probabilmente qualcun altro da coprire a Cinisi, quella notte fra l’8 e il 9 maggio 1978. Archiviato in più riprese come «omicidio a carico di ignoti» e poi più volte riesumato fino ad arrivare faticosamente alla condanna di don Tano come mandante, il caso Impastato è uno di quei delitti siciliani dove s’intravede una “convergenza di interessi” fra Cosa Nostra e altri poteri. Qualcuno vorrebbe ancora indagare, cercare, capire. Anche perché chi allora aveva manovrato (alcuni ufficiali dei carabinieri) per accreditare l’ipotesi dell’atto terroristico – escludendo categoricamente qualsiasi altra pista – oggi è scivolato nelle investigazioni sulle trattative fra Stato e mafia all’ombra delle stragi siciliane del 1992. L’inchiesta sulla morte di Peppino non è stata sepolta nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo solo per la tenacia e l’amore dei suoi compagni (come non ricordare le intuizioni di Umberto Santino, che in solitudine e per lungo tempo non ha mai abbandonato la speranza di scoprire la verità ) e per i lavori della commissione parlamentare antimafia che nel 2000 ha svelato le prime mosse per lo sviamento delle indagini. A trentatré anni dall’uccisione di quel coraggioso ragazzo siciliano, forse è stata fatta giustizia solo a metà .


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