Tripoli. Rifugiati protestano da 40 giorni, nessuna risposta
Mediterraneo. Dopo 40 giorni di presidio permanente crescono le tensioni. Per Unhcr si tratta di una «crisi senza precedenti». Ma in Italia e in Europa tutto tace
La protesta dei rifugiati a Tripoli è arrivata al quarantesimo giorno. Soluzioni non se ne vedono e la situazione sta peggiorando. La scorsa settimana circa 150 manifestanti hanno lasciato il presidio permanente al Community Day Centre di Unhcr per raggiungere la sede principale dell’organizzazione. È l’ufficio dove chi ne ha diritto può registrarsi e chiedere il reinsediamento. Domenica mattina ci sono stati momenti di tensione.
In un comunicato Unhcr afferma che un piccolo gruppo di manifestanti violenti ha provato a impedire l’ingresso di altri rifugiati e richiedenti asilo. Durante una colluttazione due persone dello staff e una guardia giurata sarebbero rimaste ferite. I rifugiati, invece, denunciano di essere stati aggrediti da guardie giurate e poliziotti. In alcuni video, che non chiariscono del tutto la dinamica dei fatti, si vedono uomini in divisa blu e beige, alcuni con in mano dei lunghi bastoni, che spintonano i manifestanti. Un rifugiato sanguina dalla bocca e un altro dalla testa.
Il nuovo focolaio di protesta ha anche denunciato presunti favoritismi nell’accesso all’ufficio che avvantaggerebbero i rifugiati siriani. L’Unhcr è preoccupata che l’esasperazione possa far aumentare la violenza e che il blocco degli ingressi all’ufficio complichi il reinsediamento dei vulnerabili. Sono oltre 1.000 le persone in attesa di salire su un aereo che atterri lontano da Tripoli (su 41mila rifugiati). Per un anno i libici hanno impedito quasi del tutto le evacuazioni. Il 4 novembre, finalmente, 172 persone hanno lasciato la capitale nordafricana dirette in un campo in Niger. Da lì saranno reinsediate in paesi sicuri al termine della procedura.
Secondo Unhcr a Tripoli è in corso una «crisi senza precedenti».
Dopo i rastrellamenti dell’1 ottobre nel quartiere di Gargarish oltre 5mila migranti sono stati arrestati. Molti si trovano ancora in detenzione. Gli altri hanno dato vita al presidio al Cdc: una protesta per chiedere l’evacuazione e un disperato tentativo di riparo da nuovi arresti. Per Unhcr, però, l’evacuazione non è una soluzione e al momento non sono in corso pressioni sui paesi che cooperano con le autorità libiche, Italia in primis, affinché si attivino o pretendano la fine delle persecuzioni contro i rifugiati.
«La Libia è un paese di destinazione, più che di transito. Migranti e rifugiati ci vanno soprattutto perché ha un’economia florida – ha detto il capo missione Unhcr Jean-Paul Cavalieri in un video diffuso su Twitter – L’obiettivo principale del nostro programma umanitario è permettere ai rifugiati di avere un’alternativa agli attraversamenti del Mediterraneo e poter vivere e lavorare in Libia». Per l’agenzia Onu le soluzioni vanno trovate in loco e le autorità di Tripoli devono garantire la regolarizzazione di migranti e rifugiati e fermare le detenzioni arbitrarie. Al momento, però, nessuno può garantire il diritto alla vita e alla libertà di queste persone.
Nei giorni scorsi Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) ha ribadito l’urgenza di interrompere i finanziamenti alla «guardia costiera» libica. «Di fronte a questi orrori dal governo Draghi nemmeno un sussulto di dignità?», ha chiesto. Lunedì Erasmo Palazzotto, parlamentare di LeU, ha dichiarato: «Dobbiamo ascoltare le persone che, per procura, facciamo respingere dai libici ed evacuarle al più presto». In Italia e in Europa, però, tutto tace e nessuno sente.
* Fonte: Giansandro Merli, il manifesto
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