Pane, amore e lotte il realismo poetico che racconta l’Italia
“Ternitti” è la versione dialettale pugliese di “eternit”, il micidiale materiale costituito da una mescola di cemento e di fibre di amianto, usato in genere per la fabbricazione di lastre di copertura, prefabbricati, tubi, ecc. Ma anche, sempre in dialetto pugliese, è l’equivalente, di “tetto” (ma “eternit” allude anche, con tragica presa in giro, a “eterno”, quello che non muore mai: mentre qui non si fa che morire). E in effetti, tra una fabbrica svizzera di eternit, dove lavora un nutrito gruppo di operai italiani e of course pugliesi, e il tetto di un cravattificio sito in territorio pugliese, si svolge l’intera vicenda di Ternitti, ultimo romanzo del giovane scrittore pugliese Mario Desiati (nato nel 1977, sicché l’espressione giovane scrittore non è, come ormai capita sovente, solo metaforica), apparso da Mondadori (pp. 258, euro 18,50). Mi accorgo di aver usato più volte, in queste poche righe, la specificazione “pugliese”. È avvenuto casualmente, ma non senza ragioni. Anzi, la prima cosa da dire è questa: Desiati, – almeno per quanto ci ha fatto vedere finora, – è avvinto in maniera quasi ossessiva alla sua terra d’origine, la Puglia, più precisamente quella parte della Puglia, che quasi sembra precipitare e immergersi nel Mediterraneo, stretta dal mare sia ad oriente sia ad occidente, fino a formare quello che gli italiani chiamano “il tacco” della penisola, terra di paesi dai nomi incantati, Tricase, Andrano, Ruffano, Leuca, Torrepaduli… Il misto inesauribile di realtà , – anche la realtà più povera, disgraziata, violenta, – e di favola, – una favola carica di sensi misteriosi, magici, – che caratterizza il mondo poetico di Desiati, nasce dalla inesausta contemplazione e dalla profonda metabolizzazione, densa di suggestioni, di questo mondo arcaico, originario, il mondo in cui risuona, per usare le parole dello stesso Desiati, la “voce delle madri”, “la voce degli antenati”: la voce che, da lontano, arriva e può recare “in dono”, inaspettatamente e qualche volta anche inspiegabilmente, “la salvezza”. Tempo fa ascrissi Mario Desiati a quella nouvelle vague della nostra narrativa, che si faceva portatrice di un’istanza di nuovo realismo italiano. Ternitti ci consente di precisare meglio questo giudizio. Ternitti è, classicamente, una storia di amore e di morte, – anzi, per restare nell’ordine sostanziale che la storia c’impone, – di morte e di amore. L’amianto, lavorato imprudentemente in una fabbrica svizzera, conduce implacabilmente alla morte quanti, – in primo luogo gli operai pugliesi, che sono fra i protagonisti di questo racconto, – hanno avuto a che fare con il demoniaco composto. Nelle sette sezioni di cui il libro è formato, anche cronologicamente ordinate (sono trentasei anni di storia, dal 1975 al 2011), la scomparsa degli uomini, – e poi delle loro donne che hanno contratto il contagio dai loro vestiti e dalle loro pelli, – è seguita con l’angosciosa certezza della scomparsa. In direzione contraria, – e sia pure disordinatamente, confusamente e disperatamente, insomma come si può, – si muove l’amore, che lotta contro la dissoluzione, il distacco, la perdita, e alla fine, anche se forse proprio nel momento in cui è diventato inutile farcela, ce la fa. A interpretare il ruolo della “passione”, che è «contagio felice, un germe trasmesso da chi si ama», – ruolo che nel Paese delle spose infelici, il precedente romanzo di Desiati, era stato di un altro personaggio straordinario, ANNALISA D’EFEBO (tutto in maiuscolo perché traiamo i dati da una lastra tombale), viene caricato ora sulle spalle esili ma profondamente seducenti e robuste di Domenica Orlando, la bimba-ragazza-donna, la figlia-madre-amante, alle cui infinite capacità di avventura e di sopravvivenza si deve se la compagine umana prefigurata, invece di sfaldarsi e dissolversi, tiene. Ora, tutto questo, me ne rendo conto, avrebbe poco senso, se non si dicesse l’essenziale. Desiati lavora alla sua materia come sospeso a mezz’aria: da una parte c’è la realtà nuda e cruda, disincantata e feroce; dall’altra c’è un vento fantastico che la raccoglie e le dà un senso e, senza toglierle verità , le conferisce il ritmo e le movenze di un’antica fiaba, d’una canzone popolare, di un sussurro scambiato fra amanti nel buio. È questo amalgama stilistico, fra realismo e poesia, fra narrazione e folgorazione, che fa il bello della prosa del nostro giovane scrittore. Non stare né qui né lì, ma contemporaneamente da tutt’e due le parti. Può anche darsi che in certi brevi momenti l’amalgama si smagli e si avvertano cedimenti nel delicato organismo (o troppo realismo cronistico, documentario e magari di denuncia o troppa invenzione, gratuita in quanto oltre i limiti delle situazioni e dei personaggi). Ma la soffice cantilena affabulatoria del narratore, il suo stare sopra le cose, guardarle dall’alto con affetto, e contemporaneamente dentro, nella loro buia, inquietante profondità , sovrasta tutto, e fa l’unità del libro. Ed è ciò che serve per goderselo come merita.
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